È uscito da poco un nuovo libro di Paolo Venti, Le figlie dell’Orsa, per Morganti Editore. Un romanzo che viaggia tra storia e mito, tra razionalità e emotività, tra presente e passato, riuscendo a rimanere sempre convincente e avvincente, sia per la facilità di scrittura dell’autore sia per l’originalità della trama che spinge a seguire con attenzione lo sviluppo della fabula. L’ambiente scelto dall’autore è quella del territorio di Pradis, per meglio dire quello che circonda le Grotte. L’incipit porta il lettore in un paleolitico medio, in cui una giovane madre, rimasta sola con il suo piccolo nella grotta in cui abita, subisce da uno sconosciuto un’aggressione violenta e sanguinosa dalla quale si salva grazie a un provvidenziale intervento di un’orsa. I segni di questa lotta appaiono catalogati asetticamente in un’analisi osteometrica di paleontologi del nostro presente. Perché aprire il romanzo con questa vicenda d’altri tempi, forse del tutto fantastica? Innanzitutto per spiegare il senso del titolo. Perché questo gesto generoso e inspiegabile dell’orsa che salva la donna e il suo bambino, apre nel tempo un legame di rispetto e convivenza pacifica tra uomini di Pradis e orsi, tanto che le giovani del paese sono chiamate le figlie dell’Orsa. Una sorta di pagana devozione accolta anche dal successivo cristianesimo, visto che nel ’500 l’autore presenta il paese di Pradis stretto intorno alla chiesa della Madonna dell’Orsa. Ed è in questo periodo oscuro e violento, in cui superstizione e fanatismo, stregoneria e malvagità, possono scatenare gesti irrazionali singoli e collettivi, che la storia del libro riprende il suo filo narrando di strane morti, che taluni attribuiscono ad orsi. Di fronte al mistero le reazioni, in generale, sono sempre scomposte con la conseguenza che il sangue chiama altro sangue, specialmente se nel fondo degli animi covano odi antichi, risentimenti legati anche ad interessi privati. Eppure è la cultura tribale e pagana a veicolare i gesti, aprire le porte alla violenza, a innescare la miccia. Il bene e il male ritornano a fronteggiarsi sia attraverso gli scontri notturni tra la confraternita delle Figlie dell’Orsa (tutte le donne del villaggio di Pradis, vestite di bianco) e le ombre scure della malvagità, sia nel confronto tra gli abitanti dei due villaggi che solo superficialmente diventa
no “i buoni e i cattivi”. In realtà due mondi diversi e inconciliabili si fronteggiano nel romanzo. I Komereth, o per meglio dire i Keltz, vivono guardando al passato, sentendosi defraudati e ingiustamente privati dell’antico potere di popoli dominanti. Credono che la rinascita possa avvenire ripristinando rituali e cerimoniali antichi, fatti anche di sacrifici umani. Gli abitanti di Pradis rappresentano invece un giusto compromesso, quello che la storia impone, una temporanea compresenza di passato e presente, di paganesimo e cristianesimo, di adattamento e assimilazione. I Kelts sono destinati a soccombere, come è avvenuto in ogni luogo per culture native che non hanno saputo o potuto accettare l’inesorabile legge del tempo o … quella del più forte. Paolo Venti in questo romanzo ha saputo dosare con abilità storia e fantasia, affiancandosi sicuramente al genere fantasy ma senza mai aderirvi del tutto, mantenendo una sua personalissima linea narrativa, grazie anche a un processo circolare che ciclicamente chiude e riapre il filo della fabula. Il romanzo comincia con un’orsa che salva una ragazza del Paleolitico e si chiude con un orso che salva una fanciulla del ‘500. Il dato fantastico dell’incipit viene subito nobilitato dall’analisi scientifica dei paleontologi, mentre le meraviglie delle grotte dell’Orsa in cui si svolge parte della vicenda cinquecentesca trovano nell’epilogo una conferma attraverso l’esplorazione della caverna da parte di un gruppo di speleologi. Per giunta ancora una volta un’orsa che protegge la grotta mette in fuga gli speleologi senza fare loro del male, mostrandosi docile specialmente nei confronti della donna che fa parte del gruppo. Evidente e lodevole il corredo documentale che ripercorre sia i rituali magici dei Benandanti, sia una mitologia celtica naturalistica che poggia sul culto di artion (l’orso), sulle agane (lontane parenti della Naiadi?) che un certo spirito inquisitorio di una Chiesa che troppo “attenta” al male dove non c’era. Ma il romanzo non vive solo della storia di uno scontro tra due paesi, ruota sul recupero di un mondo contadino visto da vicino, su dialoghi vivi e convincenti, paesaggi che sembrano quelli di un film, in uno stile che si muove tra realismo e surrealismo.
Mario Giannatiempo