Chi si inoltri nella lettura di queste poesie (Quanto dista Finisterre? Edizioni Supernova) può essere colto dalla frenesia di arrivare presto a Finisterre, metaforica fine della raccolta, ma la fretta crea quel gusto amarognolo dell’insoddisfazione con la spinta a tornare indietro e percorrere sistematicamente questa “via lucis” dove il fuori è in realtà tutto dentro all’ansia dell’andare, parallela a quella del sentire in profondità. Immersa nella fisicità del cammino, Lucia Guidorizzi sa volare nel territorio della rarefazione intellettuale di un pensiero che si fa poesia, sotto l’urto di punte emozionali da condividere con i fruitori. Sfogliare questo libro significa innanzitutto rivedere il proprio equipaggiamento per l’avventura intellettuale e caricare lo zaino di quella disponibilità alla meraviglia che si attiva in ogni anfratto e dietro ogni addensamento vegetale del percorso verso l’Oceano.
In questa sfida alla conoscenza c’è tutta la capacità dell’autrice di combinare in un’unità di compattezza seducente il fisico e lo spirituale, dando alla sua perlustrazione del possibile la patente di un’immersione nella musica dell’universo, e non solo quello percettibile.
“Quanto dista Finisterre?” è anche interrogativo problematico inscritto nelle ragioni pulsanti di un movimento continuo nella dimensione di una conoscenza, fiorita con apporti improvvisi lungo i sentieri esistenziali che portano sempre, comunque, a punti intermedi, perché la rotondità della terra rende il viaggio nient’affatto finito, ma sempre l’anticamera di un nuovo progetto per raggiungere l’Altrove; è approdo fisico e porto d’attracco a una conclusione che presto si rivela tappa di ripresa di uno spostamento nello spazio e nel tempo.
La poesia è un viaggio nelle pieghe di una realtà che l’autrice, in movimento continuo verso l’Altrove, trova nell’uscita editoriale di un libro, una sorta di stazione dov’è possibile il colloquio virtuale con un uditorio, variegato dagli umori di chi legge e ascolta i riverberi della sua riflessione, l’esito dei suoi ascolti rispetto alle emissioni più segrete della natura. Ogni volta il punto d’arrivo ha le caratteristiche di una temporalità che si consuma nell’attesa di una nuova partenza.
Il dialogare con personaggi della letteratura, dell’arte e del mito rimanda in maniera singolare ad alcuni tratti costitutivi del romanzo Micromega di Voltaire, occasione straordinaria per una meditazione del protagonista in compagnia con un abitante di Saturno sui risvolti filosofici dell’esistenza. In un’altra opera Lemuel Gulliver, personaggio principale nel libro di viaggi di Jonathan Swift, nel suo inarrestabile vagare di terra in terra prova la gioia sfrenata della scoperta, ma anche la bruciante esperienza del naufragio; Lucia Guidorizzi passa per l’una e l’altra congiuntura attraversando addensamenti vegetali, lande apparentemente brulle, scoscendimenti disagevoli e appunto per questo carichi di suggestione, punti d’osservazione sorprendenti, porzioni di cielo avvistate da profondità rocciose, tutte condizioni che in maniera diversa e con gradazioni molteplici sono state territorio privilegiato per assaporare a pieno la risonanza spirituale dei luoghi, trasfigurati in involucri di umanità fatti vibrare nell’incontro con la luce, le atmosfere, i profumi, le forme, i suoni di silenzi lontani dal frastuono della città.
L’interrogativo che dà titolo al libro non ha in fondo una motivazione davvero problematica, semmai indica con chiarezza una
volontà di raggiungimento dentro un processo temporale che tende a un traguardo, limite estremo di un’orbita esistenziale agganciata peraltro a ulteriori prosecuzioni del cammino in dimensioni diverse; è discrimine impercettibile fra il fisico e lo spirituale, la luce e il buio, le certezze della vita e i misteri della morte, tra una serie di antinomie frontali che costituiscono il reticolo significante di un’opera stratificata in numerosi spessori, come contenuti di un’umanità mai uguale a se stessa nemmeno in una singola persona. Infatti l’itinerario metamorfico che si registra nella vicenda esterna e interna della natura è in parallelo con le modificazioni biologico-sensoriali della poetessa.
D’altro canto nella raccolta precedente, Foreste e forestieri, ci accompagna in un viaggio iniziatico attraverso la complessità del vissuto rappresentata dall’intrico vegetale con cui la natura accoglie nella capsula del silenzio chi è disponibile a captarne i segnali minimi, che trasformano il dicibile in ineffabile, l’apparente in invisibile. Da quell’ambiente riparte il cammino di Lucia Guidorizzi allargando i sentieri impervi della filosofia spicciola in più agevoli luoghi di transito.
Seguendola rischiamo di perderci con la voglia di tornare indietro e ripetere palmo a palmo il tragitto noto con la meraviglia di cose mai scorte nella prima tornata. E anche quando la vita è un Flegetonte infuocato dobbiamo arretrare per non annullarci nell’incandescenza dell’onda, non avendo la schiena di Nesso “a portata di mano” per il trasbordo.
Le Colonne d’Ercole sono mobili indicatori che la forza della conoscenza sposta sempre avanti lungo il cammino che il corpo e la mente compiono nel tragitto d’esistenza, per cui Finisterre può dare la sensazione di una sua prossimità quando invece è ancora lontana, oppure di una lunga distanza smentita immediatamente dalla sua inattesa comparsa. L’andare conserva anche il gusto del viaggio senza bussola, in un percorso frastagliato in tanti segmenti capaci di far sentire il traguardo come linea di una nuova successiva partenza. E con devozione e meraviglia / Sapere che si è giunti / A Finisterre.
Nesso, nella sua veste nobilitata dal mito, trasmuta l’immagine del traghettatore e accorpa quello di una ferinità assoggettata all’uomo che progetta il superamento di un guado, altrimenti impossibile. La materia dantesca a tal proposito è energia pulsante in un afflato di movimento nello spazio e nel tempo della memoria e dell’intelligenza. L’ambivalenza morfologica e la duplicità interiore stabilisce un distacco tra le polarità del sentire. Sai così poco di me / Dei miei desideri duplici / Della mia natura ibrida. Ed è nella consapevolezza della propria natura che si innesca quel meccanismo di crescita che talora risiede nella focalizzazione disincantata dei propri limiti, delle proprie tensioni, delle proprie possibilità di riscatto rispetto ai rovesci e fallimenti esistenziali. La natura ha pudore / Di rivelare il fondo terrificante della realtà / E parla per enigmi / Formule che restano ambigue.
Nel dipanarsi del filo della riflessione la poesia ha spesso una tensione interrogativa com’è tipico di chi – come Lucia Guidorizzi – chiama a rapporto delle sue istanze più segrete la forza di un verso che taglia tra
sversalmente il territorio della conoscenza, sapendo che risponde perfettamente al suo “calco” con Finisterre, che è un punto ma, posto sul terreno del simbolo e della metafora, diventa chimera di una mobilità inafferrabile e, appunto per questo, utile a una curiosità che si alimenta continuamente del nuovo senza raggiungere lo statuto della finitezza.
È racconto che svapora in trasparenza di pensiero, poggiante su un ritmo che muta secondo il tempo e il luogo dell’obiettivo poetante. È così che l’autrice, attingendo alla sua dilatata dotazione culturale, sembra dialogare a distanza con gli scrittori che le hanno lasciato l’eredità di una testimonianza, anche di un sussulto dovuto ai dubbi, alla gioia di malcelate certezze, alla malinconia di un mondo che scompare per lasciare peraltro spazio all’ansia di vederne uno nuovo. E compagni di viaggio ideali le sono numerosi autori della letteratura e dell’arte con la quale la sua curiosità si è misurata in molteplici indagini beneficiando di vividi contributi; in tal modo negli exerga di ogni sezione del libro, nelle citazioni e nelle dediche è come se in questo itinerarium mentis in naturam le si accostassero autori della classicità come Severino Boezio, Dante, Leonardo Da Vinci, del pensiero moderno e contemporaneo come Friederich Holderlin, Pierre Hadot, Dino Campana, Dylan Thomas, Mario Stefani, Ramon del Valle Inclàn, Rosalia de Castro, Lois Pereiro, e artisti quali Tintoretto ed El Greco.
La strumentazione tipica del linguaggio poetico è assoggettata dall’autrice con grande duttilità espressiva alle situazioni fisiche oppure alle dinamiche spirituali a cui si riferisce; per cui anche il tono varia in una notevole gamma di registri, dall’elegia all’epica del quotidiano, dal lirico al celebrativo (nel senso proprio letterale, teso ad esaltare la grandezza di un’opera o un personaggio), dall’intimistico allo spirituale; così si modula anche il verso nella lunghezza, nell’andamento strofico e nel ritmo, dando sempre alla poesia il segno di una coerenza rilevabile nel confronto con alcune poesie giovanili inserite nella raccolta.
Col nomadismo inquieto Lucia Guidorizzi ha in comune solo la prevalenza delle incertezze nella visione prospettica del futuro, per il resto il suo modo di porsi rispetto all’andare è vibrante di attese per i suggerimenti simbolici, per le suggestioni metaforiche, per il fervore di ricerca interiore, tutti elementi che dicono chiaramente quanto creda nel viaggio dell’anima e, durante il cammino, riesca a scavare negli arcani della coscienza anche grazie alle energie assorbite dalla struttura del paesaggio attraversato. E così il singolo testo poetico è frammento d’emozione allineato con tutti gli altri, utili a ricomporre il dedalo di strade che porterebbero a Finisterre se questo fosse solo un punto fisso della geografia e non un mobile bersaglio della sua voglia di continua ulteriorità nel viaggio a piedi, che le consente di affinare lo sguardo e sciogliere l’incanto dei luoghi in una lucida messa a fuoco della propria identità.
E qui la sua sensibilità corre parallela a quella del regista e scrittore russo Andrej Tarkovskij che nel documentario trasmesso da Rai 2 Tempo di viaggio del 1983 (girato in Italia durante la ricerca dei luoghi nella campagna senese in cui ambientare il suo film dello stesso anno “Nostalghia”) afferma: C’è un solo viaggio possibile, quello che facciamo nel nostro mondo interiore. Non credo che si possa viaggiare di più nel nostro pianeta. Così come non credo che si viaggi per tornare. L’uomo non può tornare mai allo stesso punto da cui è partito, perché, nel frattempo, lui stesso è cambiato.
Enzo Santese