
Scomparso pochi giorni fa, alla bella età di 90 anni, Alberto Arbasino (Voghera, 1930 – Milano, 1920) è stato una presenza preziosa, quanto mai viva e necessaria nella nostra letteratura; e – anche se a lui, bastian contrario noblesse oblige, questo stato in luogo figurato non sarebbe piaciuto – nel nostro mondo letterario. Romanziere – per tutti ricordiamo Fratelli d’Italia (prima edizione 1963) – saggista, giornalista culturale e polemista, è stato uno scrittore per natura e statura inafferrabile ad ogni definizione o ingabbiamento culturale. Una penna di fervida matrice illuminista, per cui l’impegno è consistito essenzialmente nell’esercizio di una vigile coscienza critica, che poggiava sulla base di una vastissima cultura: non a caso, è stato tra i non molti intellettuali italiani a conoscere le lingue e a confrontarsi con le culture straniere. I suoi nemici in patria non potevano essere che due: la cialtroneria e il provincialismo. Inserisco qui un ricordo personale. L’unica volta in cui vidi Arbasino – non potei parlargli, ero tra il pubblico – fu nel maggio 2003 a Bologna, in una serata all’interno di una serie di eventi dedicati ai quarant’anni del “gruppo 63”: un ensemble che, a parte alcune raccolte poetiche di Antonio Porta e di Pagliarani e qualche spunto critico di Eco, è oggi pressoché dimenticato, e attraverso il quale anche Arbasino transitò di gran fretta.
Lo scrittore era stato invitato a parlare, ma dovette aspettare oltre dieci minuti perché il moderatore della serata – un accademico agli antipodi del savoir faire – stava ricamando su un’astiosa polemica di giornata. Superato il limite di un’educata attesa, Arbasino si alzò e – senza parola ferire – se ne andò. Lo stile e la coerenza sono l’uomo, e vanno coniugati con l’appropriatezza degli intenti e di una prassi culturale d’alto livello: di qui la critica perentoria di Arbasino ai radicati difetti nazionali, espressa in libri dai titoli inequivocabili come In questo stato (1978) e Un paese senza (1980). Riprendendo la censura di Eugenio Montale, secondo cui in un mondo globalizzato “non si può essere un grande poeta bulgaro”, Arbasino pungeva la scarsa vitalità della nostra narrativa, che “riflette e rispecchia soprattutto vite burocratiche ed esperienze mediocri, straordinariamente omogenee e ripetitive”; e “protagonisti” molto più impegnati a firmare appelli, ad andare nei salotti giusti (oggi televisivi) e a titillare i loro ego dappoco, che a farsi trovare nei luoghi dove si vivono i grandi avvenimenti storici.
Al contrario, Arbasino viaggiò ripetutamente nel mondo, fin da giovane; in due bei volumi, Parigi o cara (1962) e Lettere da Londra (uscito solo nel 1997) troviamo le impressioni dei viaggi negli anni Cinquanta, con le esperienze di incontri e le interviste con grandi come Céline, Mauriac, Cocteau, Beckett, Golding, T. S. Eliot, E. M. Forster. Al profluvio del periodare, Arbasino accompagna sempre la puntualità di descrizioni, interventi, citazioni. Al contrario di Luigi Meneghello, che si è sempre giocato tra i due poli di un’erudizione esibita (nell’orgoglio del docente universitario in Inghilterra proveniente da un paesucolo del vicentino) e i ricordi dell’infanzia sotto il fascismo, riproponendo così una versione leziosamente snob del provincialismo italico, Arbasino alza la sua gittata alla dimensione mondiale della cultura. L’unica vera sessant’anni fa, nell’universo che si andava espandendo tecnologicamente; e ancor più oggi, in un pianeta tecnologizzato come non mai, tra iperboliche possibilità di comunicare e virus altrettanto iperbolici nella loro micidiale rapidità di distruzione interattiva.
Enrico Grandesso