Da tempo Maddalena Capalbi ha deciso di scrivere nel suo dialetto, il romanesco, senza però abbandonare l’italiano. Una scelta dettata non tanto o non solo perché è la lingua materna, cioè delle sue radici non solo geografiche, bensì perché anche il dialetto può e deve essere considerato come lingua della poesia, attraverso la quale esprimersi in modo più ampio e meno legato alle strutture linguistiche dell’italiano nazionale. In questa suo nuovo viaggio più che ai classici Belli e Porta, ha seguito la linea di Mauro Marè (1935-1993) il quale nel primo periodo utilizzò il sonetto classico per poi passare al verso libero.
Capalbi è riuscita nell’impresa di unire il “classico” ad un dialetto più “moderno” salvando però in molte poesie il gusto per l’invettiva e la battuta sagace e popolaresca, offrendo immagini straordinarie attraverso metafore, similitudini e modi di dire che solo il dialetto sa esaltare. Anche nella plaquette, La Leonessa affatata (Liberedizioni, Brescia), è rimasta fedele al suo stile comune a molti poeti dialettali del secondo ’900: staccare – come ha spiegato in un saggio Giovanni Raboni – il dialetto dall’italiano non più verso il basso, ma verso l’alto usandolo nell’ambito e in funzione di un progetto espressivo prevalentemente lirico.
Un progetto, insomma, che ha come obiettivo quello di trasformare il dialetto da una lingua della realtà e della differenza a specifica e privilegiata della poesia. In La Leonessa affatata, Capalbi aggiunge qualche cosa in più: il teatro. La poetessa, infatti, si fa accompagnare per le strade di Brescia da una Ciceronessa, una simpatica popolana che ama la sua città, e con lei instaura un dialogo in certi momenti spassoso, in altri tenero e in altri ancora molto colto. Corretta la citazione di Angelo Canossi, importante poeta dialettale bresciano del primo ’900, citato anche da Pier Paolo Pasolini in Passione e ideologia, che pure scrisse alcune poesie per descrivere la sua città con protagonista una popolana.
La passeggiata ha inizio dal cuore della polis, Piazza della Loggia, dove la poetessa oltre ad ammirare le bellezze architettoniche si ferma anche davanti alla stele che ricorda la strage fascista del 1974. Prosegue poi in piazza del Duomo e racconta la storia di un bambino che durante il sacco di Brescia del 1512, operato dai francesi, venne colpito da una sciabolata al viso e in seguito a quella ferita iniziò a balbettare; da allora lo chiamarono Tartaglia, genio della matematica.

Poi c’è la Brescia romana con il Capitolium, i resti del teatro, la Vittoria alata e santa Giulia dove visse Ermengarda dopo essere stata ripudiata da Carlo Magno; le tante opere d’arte, compreso il Raffaello citato anche da Friedrich Engels dopo la sua visita in città; piazza Arnaldo da Brescia, il Castello, ma anche la vigna cittadina più estesa d’Europa e la casa dove Ugo Foscolo nella sua permanenza a Brescia andava a trovare la bella Marzia Martinengo, per finire in piazza della Vittoria realizzata dal Piacentini e dove si erge il primo grattacielo costruito in Italia. La poesia risuona nella poesia perché Capalbi non dimentica Aleardo Aleardi che definì Brescia la Leonessa, Giosuè Carducci che scrisse «Brescia la forte, Brescia la ferrea, / Brescia leonessa d’Italia» e Veronica Gambara, poetessa bresciana del ’500, ma anche Alessandro Manzoni che nell’Adelchi, a proposito di Ermengarda, morta nel monastero di Santa Giulia dove è conservata la croce di re Desiderio e della regina Ansa, tempestata di pietre preziose, scrisse «Sparsa le trecce morbide sull’affannoso petto». Una passeggiata che ha fatto innamorare una romana di Brescia e non è un caso se nei primi versi ha scritto:
Amichi mia
dar titolo se capisce ho appiccicato
ar nome de lusso de ‘sta città
‘na parola che nu’ j’arisona!
Affatata! Insomma, maggica, come se dice a Roma!
Paolo Barbieri