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Pessoa, nelle acque del sogno

Volendo immaginare il mondo onirico come una grande distesa d’acqua (dolce o salata, fate voi), è suggestivo andare a rileggere quel delizioso libro di Fernando Pessoa che è O Ma­rinheiro, “dramma storico in un quadro” del 1913 ed edito nel ’15. E se tua figlia è a Lisbo­na proprio nel momento in cui lo leggi, c’è un affettuoso motivo in più per scriverne. Il problema è riuscire a tenere distinte la gran­dezza di Pessoa e l’indiscutibile bravura di An­tonio Tabucchi che, traducendolo per l’edizio­ne einaudiana del 1988, ha confezionato due meraviglie: una Postfazione e una Nota di tra­duzione. Parto da quest’ultima per condividere con i lettori questa perla: «forse la magia del Marinaio, quella sua atmosfera sospesa, con­gelata in un tempo fuori dal tempo che pare non appartenere a nessuno […] dipende in gran parte dallo strano e straordinario uso dei modi verbali che Pessoa, approfittando di tutte le potenzialità che la lingua portoghese gli of­friva, ha impiegato nel suo “dramma statico”.

E dunque, principalmente, il congiuntivo, ver­bo dell’eventualità, dell’incertezza e dell’irreal­tà, [ma] anche l’infinito personale» e lo stesso onnipresente, dilatato gerundio. Ne deriva un che di iper-letterario, ben coerente con l’atmo­sfera araldica e con quel contesto esoterico che è parte integrante del mondo pessoiano, anche se non lo esaurisce. La scena, nella sua teatralità, è essenziale: una bara con una donzella vestita di bianco vegliata da tre altre donzelle che, nel giro di una notte indefinita, sussurrano di sogni reali o immagi­nati. Ma non sono sole: con loro c’è il mare, che non le abbandona mai e, complice, la bassa marea durante la quale sembra stare a brac­cia conserte, s’intrufola in ogni piega della loro conversazione. La schiuma sussurra, e lo fa con mille voci, mentre l’onda s’infrange. Quello di Pessoa è un mare che volentieri si fa nostos, ma non per ciò che si è vissuto, bensì per ciò che magari mai si vedrà; un mare che, assonnato, vorrebbe sottrarsi alla vista dei curiosi per un meritato riposo.

Una donzella ammette: «La sera, all’imbruni­re, filavo seduta al davanzale della mia finestra. Era una finestra che dava sul mare, e a volte c’era un’isola in lontananza… Spesso non fila­vo; guardavo il mare e dimenticavo di vivere». E poi c’è appunto il sogno, che basta un gesto perché si dissolva, ma che pure, se creduto, può donare felicità. Sullo sfondo, sornioni, stanno i monti, tanto immobili e grandi che non possono che custo­dire gelosamente un segreto di pietra, che non vogliono svelare ad alcuno. In questo dialogo surreale, dove il passato è ombra e il presente non si sa neanche se esista, una delle donzelle arriva persino a confondere le proprie parole con delle persone: è la stessa che “sente” la vita vegetale e la cui anima tutta è una foglia tre­mante. Se non si vuole rimanere intrappolati nella difficoltà di vivere, è quasi meglio non prendere coscienza della vita.

Pur nell’elogio del silenzio (“è la vita che lo vuo­le”), quanto è bella l’entrata in scena del canto! Viene presentato come una persona “allegra e spavalda” che, di notte all’improvviso, irrom­pe nella stanza riscaldando e confortando. Poi finalmente appare il sogno nel sogno: un mari­naio evocato da una visione che ci narra l’esilio, una patria perduta e un’altra patria a sua volta da lui trasognata. E proiettata in un’immagi­nata, felice gioventù trascorsa – manco a dirlo – nei mari del Sud.

Giuseppe Moscati

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