
Ci sono libri fedeli alla vocazione autentica della letteratura, che è quella di essere nera, veicolo erratico di fantasmi, brulicante di echi e di epifanie. In questi casi l’autore si fa medium dell’indicibile e dell’invisibile e, sporgendosi sul baratro, si pone in ascolto del balbettante linguaggio dell’estasi e del mormorio dei trapassati. Questa è la vera funzione della letteratura: essere nera oppure non essere, diventando banale occasione di intrattenimento. Gianni De Martino, con il suo ultimo romanzo “La città dei Jinn”, La Nuova Carne Edizioni, 2023, ne rivendica a pieno titolo l’oscurità che trasforma nella polvere d’oro della scrittura.
Esso è la rivisitazione di due suoi romanzi precedenti “Addio a Mogador”, Booksprint Edizioni, 2020, e “Hotel Oasis”, Mondadori, 1988, quest’ultimo con la prefazione di Pier Vittorio Tondelli. Questa interessante trilogia fa riflettere su come ogni scrittore degno di questo nome (Gianni De Martino è stato definito da Giuseppe Pontiggia uno tra i pochi narratori veri) scriva e riscriva in realtà sempre la stessa opera, facendone e disfacendone la trama e l’ordito, al pari della tessitura di un tappeto berbero, costituendo così una vera e propria opera vivente, che cambia e si modifica con il trascorrere del tempo. In un divenire incessante, l’autore declina la scrittura nei modi dell’erranza e dichiara che i jinn che animano le pagine di questo libro sono gli unici ad essere veri, mentre i personaggi che vi compaiono sono tutti d’invenzione, come del resto la vita stessa. “La città dei jinn” è Essaouira, un tempo chiamata Mogador, finis terrae del Nord Africa, interzona mitica e visionaria, luogo di traffici e commerci, sui cui bastioni s’infrangono le onde selvagge dell’Atlantico, punto di partenza per l’Oltre e l’Altrove.
Essaouira si configura come luogo ideale dove applicare quel “ragionato disordine di tutti i sensi” di cui parla Arthur Rimbaud nella sua lettera del veggente. È la città in cui confluiscono tutti i saperi e tutte le filosofie, oasi di rifugio per gli erranti, teatro di amori incandescenti incontrati in taverne in rovina. L’immagine del desiderio nella sua assolutezza corrusca è incarnata nella figura di Aissa, splendido diciassettenne che assume le sembianze dell’Adolescente Immortale di Klossowsky, del Puer Aeternus di Hillman e che adombra anche le divinità della vegetazione e della giovinezza, come Tammuz, Attis e Adone, che segnano l’avvento della Primavera, legate a riti di morte e rigenerazione. In questa bianca città del Nord Africa, soffia perennemente un vento inquieto, presago di bellezza e di catastrofe. Lasciandosi attraversare dalle voci dei grandi trapassati della letteratura, come Baudelaire, Rimbaud, Proust, Gide e altri, facendosi permeare dalle luci e dalle ombre del passato e del presente, Gianni De Martino non scrive solo un romanzo, ma anche un grande saggio antropologico sugli usi e costumi del Maghreb.
Ogni anno in primavera, passando per Essaouira, per le foci del fiume Tensift e risalendo fino all’Alto Atlante, si compie l’antichissimo pellegrinaggio tribale del Regraga, che si attua compiendo un viaggio circolare di quaranta giorni per recare omaggio alle tombe di famosi marabutti, al fine di garantire fertilità alla terra. Ironica e sferzante, la scrittura di Gianni De Martino si sposta dal Nord Africa all’Europa, sondando tutte le dimensioni e le condizioni dell’essere, scendendo nelle buie cantine della psiche da cui ritorna con una vecchia scatola di cartone che aprendosi, come una lampada d’Aladino, fa affiorare mondi ed esperienze inobliate. Mai come nel nostro tempo, ossessionato dalla paura del contagio con l’Altro e l’Altrove, questo romanzo diviene un viatico necessario per avventurarsi nello sfolgorante territorio dell’Oltre.
Lucia Guidorizzi