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Poesia tesa tra particolare e universale

L’urgenza interiore, evocata dalla rifles­sione di Kandjnski nell’opera Lo spiritua­le nell’Arte, è il dato primario della poeti­ca dell’autrice vero­nese che, non a caso, intitola la sua silloge Voci d’anima Edizio­ni Mazziana, Verona), l’espressione di un mondo tutto privato, offerto allo sguardo del lettore. D’altro canto Alda Merini nella lette­ra alla sua amica – riportata in esergo – acco­muna Marisa Tumicelli nella tensione a scrive­re “grandi terre inesplorate piene di miracoli inattesi”. Il che vale a dire che la vita consuma le migliori energie del soggetto nell’attesa feb­brile di accadimenti che sanino le ferite sofferte e riservino medicamenti utili a guardare il pre­sente, con l’occhio libero dall’offuscamento dei tormenti esistenziali, in una dimensione dove possa germinare uno stato di grazia, una con­dizione di rasserenante ripiegamento sui propri silenzi interiori e sulle emissioni più suggesti­ve del mondo. Marisa Tumicelli non interpreta la poesia come un involucro impermeabile alle sollecitazioni dell’universo sensibile, ma un al­veo spirituale, dove lo spazio dei sentimenti e il tempo dei battiti interiori si congiungono in una costante potenzialità di godimento dell’esi­stente e delle sue articolazioni più significative. Così la poesia erompe magmatica nelle sue fibre costitutive e enigmatica nei suoi bagliori che consentono “visioni” intense e straordinarie. La scrittura della poetessa di Verona è intima­mente legata alla sua vocazione d’artista; in­fatti, come installa nello spazio le opere pensa­te e realizzate per i luoghi che poi le ospitano, così dispiega sulla pagina una gamma di toni umorali e soluzioni espressive con cui consente al lettore di disegnare una geografia interiore, fatta di molteplici sussulti emotivi. Nella lirica Fra tempo e vita traspare una sorta di dialet­tica tra il tempo assoluto e quello della vita: l’uno incapsula l’altro e lo definisce in un ter­mine notturno, quando si risolve nell’ “esilio d’un canto / con offerta di quiete / ritrovato silenzio / raccolte ombre / di corpi abitati / da anime in respiro / solitudini visitate da incanti di stelle.” È indubbiamente creatrice di imma­gini che rampollano da una forza sorgiva ali­mentata dal prelievo memoriale, dalla visione orizzontale del presente e dalla tensione verso il tempo venturo. Consapevole della finitudine della fisicità, assegna all’anima la capacità di spinta in direzione dell’“oltre”, quel territorio dell’indicibile dove risiede la possibilità di uno stato di grazia che si accende in un seducente caleidoscopio di colori e suoni. Il verso è dut­tile misura di un’intuizione affidata talora a una sola parola, capace di scolpire lo stato d’a­nimo da cui scaturisce la scrittura sommossa da registri delicati eppure innestati in artico­lazioni di pensiero a volte tormentato da sottili inquietudini. È quasi “naturale” allora l’uso ricorrente di parole-chiave, capaci di aprire circuiti di comprensione su profondità signifi­canti che fanno collimare perfettamente il re­ale e il metaforico: “ardente”, sia per il calore dello slancio lirico che per la luce che “ri-vela” le pur minime sfumature del reale; “vibrante”, riferito all’intensità della forza espressiva, ma anche al palpitare di felicità per ogni aspetto seducente della natura; e poi è illuminante la parola “silenzio”, condizione ottimale per “au­scultare” se stessa e il respiro dell’esistente.

L’amore nelle sue declinazioni più nobili e ra­refatte è uno dei perni centrali della riflessio­ne di Marisa Tumicelli e abita musicalmente il suo linguaggio lasciando tracce e fragranze lungo un cammino che talora muove dai ter­reni paludosi della cronaca verso le quote d’a­ria pura, percorsa dalle frequenze del sorriso e della gioia. La poetessa mostra di conoscere la realtà contemporanea anche nelle sue pieghe più tormentate; appunto per questo l’obiettivo precipuo della sua attenzione di donna sensibi­le e di intellettuale raffinata va a toccare sem­pre l’orizzonte che divide il fragore molesto e a tratti terrifico della realtà circostante (“Croci a Odessa”) dall’armonia dei silenzi percepiti con l’anima, il visibile dal mistero.

Quello di Ma­risa Tumicelli è davvero “Il canto dell’amore” che sa essere “carezza / su giorni / e stagioni.” Una gran parte di questo è riversato su Vene­zia, città amata sopra ogni cosa anche perché, proprio dai “silenzi / di pietre”, l’autrice coglie il senso dell’indicibile e il mistero dell’essere. La lettura di queste liriche può generare in chi legge la sensazione di un tempo sospeso, come se il soggetto creante tendesse ad affermare un permanente hic et nunc, esteso a tutti i momen­ti della sua cronaca personale che, pertanto, si propone come porzione di storia collettiva. E poi il combustibile onirico la proietta in una dimensione “altra”, là dove finito e infinito si lambiscono; il viaggio verso l’indistinto inizia dalle sollecitazioni del bello, come le fioriture, la luna, il mare e le suggestioni che ne deriva­no, gli elementi fisici della natura, come l’in­canto di una nevicata. Oppure la siepe che, di­versa da quella leopardiana del monte Tabor, non rimanda con l’immaginazione oltre di sé, ma si fa canto di luce”, “giaciglio di pensieri” per un lungo indugio sull’“amata / solitudine / di un tempo che non muta.” Il tutto mentre la fissità dell’oggi è data anche dalla frequenza del participio presente, segnale indicatore di un desiderio imperioso di fermare lo scorrere dei giorni.

Enzo Santese

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