La società con i suoi limiti, le sue leggi, le sue assurdità non è mai andata molto a genio agli scrittori triestini, per natura ribelli. Esempio eclatante è l’ironia dissacrante di Svevo che ne sbriciola dalle fondamenta le strutture.
Anche nell’ultimo libro di Stelio Mattioni, Chicchessia, uscito postumo per i tipi della casa editrice Acquario, a cura della figlia Chiara, la realtà in cui il protagonista appena laureato dovrebbe inserirsi gli appare noiosa e scontata e non attrae il suo interesse. Meglio prendersi una vacanza, pensa, e si reca in un borgo dove la famiglia possiede un’abitazione antica, borgo peraltro inabitabile e inaccessibile, perché sepolto da una misteriosa polverina bianca ritenuta pericolosa. La scusa è di andare a sorvegliare una pratica di risarcimento che la famiglia dovrebbe ricevere come compenso. Ma il giovane si occupa molto presto di tutt’ altro. Scavalca il recinto di protezione e si mette a vagare tra le vie del borgo contaminato e, mentre recupera ricordi d’infanzia e osserva le case che il tempo e l’abbandono hanno corroso, conosce una strana ragazza, Ebe, unica abitante del luogo la quale, infischiandosene altamente delle regole e delle precauzioni, vive e lavora nel borgo. Restaura case, costruisce muri, sanifica zone pericolanti. Rende insomma abitabile quello che andrebbe distrutto.
Il rapporto che si crea tra i due è giocato sulle corde dell’amicizia e della collaborazione, ma ha un andamento variegato e ondeggiante che implica anche risvolti sentimentali e sessuali. Ebe è quanto di meno conforme alle regole della società. Ha delle sue personali leggi e dei suoi codici e non accetta nessuno che non si adegui ad essi. Pertanto il rapporto – come d’altronde anche in altri romanzi di Mattioni – è condotto e condizionato dall’elemento femminile con le sue contraddizioni, forze e debolezze. E con il fascino creato proprio da questo mix insolito.
Ebe è, come d’altronde anche altri personaggi creati dalla penna di Stelio Mattioni, il simbolo di un essere autentico, non plasmato né assoggettato dalla società. È nel bene e nel male se stessa. Prospetta al protagonista un modo diverso di vivere e differenti modalità di rapporti umani. Se prima il ragazzo aveva solo studiato e si era occupato di problemi
astratti, ora si dedica a costruire a sistemare muri e questo lavoro, a cui presto affianca anche quello di tipografo, lo appaga. Alla fine della giornata i due ragazzi sono stanchi e soddisfatti e in questo lavoro comune si riconoscono profondamente complici e amici. Il borgo contaminato diventa dunque una via di fuga, un’oasi di salvezza, una diversa possibilità di esistenza, a cui, come si adombra nella parte finale, potranno accedere anche altri giovani; se la società va riformata infatti, devono essere i giovani a farlo e in un modo clandestino, stando ai margini, un po’ esposti e un po’ a rischio, ma consapevoli di stare creando un mondo dalle fondamenta di un passato sepolto. Da qui è tratto un presente nuovo che bypassa le regole, le pastoie, i limiti, le assurdità che la società impone, con la convinzione che, purtroppo, con il mondo non si può venire a patti, è meglio trovare un sotterfugio, salvare qualche apparenza e poi fare a modo proprio.
Marina Torossi Tevini