Molte cose si sono scritte su Venezia, città amata e odiata per le sue caratteristiche che la rendono inimitabile e indimenticabile, raccontarla è sempre una scelta pericolosa, poiché mette in gioco l’immaginario di ognuno di noi, i fantasmi e le proiezioni che ci accompagnano sempre quando ci confrontiamo con lei. Nelle pagine limpide e spietate dell’ultimo romanzo di Claudia Zaggia, “Nel tempo secondo. Vite in una Venezia che non c’è più”, Mazzanti libri 2022, questa sfida è raccolta con coraggio: l’autrice ci conduce all’interno di una narrazione magnetica che cattura fin dalle prime pagine nell’evocare l’essenza più autentica di un mondo scomparso. Claudia Zaggia ci presenta Venezia come un teatro vuoto, in cui rimangono soltanto le quinte deserte di una città che a poco a poco, nello svolgersi impercettibile e ineluttabile del tempo, ha perduto il suo tessuto vitale. Nel seguire le vicende di una famiglia veneziana tra Otto-Novecento, si partecipa della storia stessa della città, segnata profondamente dall’emorragia continua dei suoi abitanti, emigrati in gran parte in terraferma e vittima di un’inarrestabile entropia prodotta dalla mancanza di ricambio generazionale. Venezia diviene così un’immensa sepoltura di memorie che sprofondano nell’oblio. I luoghi col passare del tempo si trasformano, perdendo le loro funzioni originarie: ad esempio, l’isola della Giudecca che fino alla prima metà del Novecento era al centro di una ricca attività industriale, a poco a poco sostituisce un’economia vivace e produttiva con una massiccia e invasiva turisticizzazione. Claudia Zaggia però non trasforma il suo romanzo in un saggio economico-politico e sociale, non denuncia, non scaglia invettive, semplicemente racconta con l’evidenza di uno sguardo che solo la grande letteratura può dare, un fenomeno nel suo drammatico compiersi. Il suo è un romanzo corale, in cui appaiono tantissimi personaggi, dai membri della famiglia veneziana di cui narra le vicende, agli abitanti della città, tutti destinati a scomparire nell’oblio. Questo romanzo però, nonostante la sua drammatica visionarietà, possiede anche punte d’inaspettata ironia, come quando sono evocati episodi divertenti come quello dello zio Nicoletto, di professione “papuzer”, che vive il suo momento di gloria quando gli sono commissionate un paio di pantofole destinate nientemeno che alla salma di Richard Wagner che le sfoggerà sul suo catafalco funebre. Le pagine del libro si snodano in una narrazione fluida e continua, simile a una partitura musicale che ci offre la sensazione dello scorrere del tempo, nella volontà di operare un tentativo di restituzione nell’evocare l’essenza più intima della storia veneziana. La grande capacità dell’autrice di descrivere il temperamento dei suoi personaggi, si esplica nel raccontarne le piccole manie, i dettagli, le abitudini e le aspirazioni che li contraddistinguono. L’esistenza procede, attraversa due secoli,
scandita da matrimoni e funerali, incontri e commiati, dal ricordo di giornate di pioggia che si alternano a giornate di sole. Talvolta, sullo sfondo di questa città irreale, oggi ormai popolata da “tristi turisti” che fotografano tutto senza vedere niente, compaiono, aureolate da una luce mitica, le Dolomiti, dalle cui cime si favoleggia che in giorni particolarmente limpidi si possano vedere la laguna e Venezia che da lontano sembrano intatte in tutto il loro splendore, anche se ormai questo capita raramente.
Lucia Guidorizzi