Il corpo e l’opera di Pasolini sono stati straziati e inceneriti, annullati: dopo la sua tragica morte, ma anche in vita, si sono succeduti, in sequenza quasi ossessiva, (e per paura o invidia o viltà ed anche ignoranza), fraintendimenti in mala fede, analisi fuorvianti, letture superficiali, interpretazioni parziali o faziose, insincere mistificazioni, spesso rozze e volgari, mosse in prevalenza da intolleranza e pusillanimità.
In realtà la sua esistenza e la sua polimorfa attività, febbrile ma sempre lucida e corrosiva, si sono sempre fondate, fin dall’inizio, sulla ricerca e sull’amore per la Verità e per la Vita, disperatamente, eroicamente, in modo contraddittorio, ma in totale sincerità e purezza: in ciò consiste principalmente la sua “religiosità”, il suo “sentimento del sacro”, la sua viventia spirituale e morale, la sua palingenetica ansia di liberazione e di “rivoluzione”, coscienziali, interiori. Il suo profetismo “corsaro”, “protestante”, eretico e dantesco, si accompagna al volontarismo sacrificale e al leopardiano eroismo contestativo e combattivo, ribelle e rimbaudiano, eccessivo, ma sempre costruttivo e vitale. E ciò gli derivava in particolare dalla sua istintiva e spontanea generosità, dal suo “felice” e solidale altruismo, anche se il grido apocalittico e lacerato, la solitudine e l’isolamento ne hanno segnato e influenzato i limiti e i contorni, la sua piena e accettata realizzazione.
Il suo essere “cristiano” (per ragioni anche storiche e ideologiche, ma sopra tutto esistenziali e spirituali) era sì contorto, passionale, viscerale, ma insieme chiaro, luminoso, coraggioso, non-integrato, non nichilistico, né moralistico né tantomeno nostalgico e regressivo: Marx e Freud, Gramsci e Jung, Barthes e Lacan, Propp e Brémond, Jakobson, Adorno e Eliade, la gnosi e l’alchimia, gli hanno fornito in sequenza, la necessaria carica razionalizzante e critica, hanno formato la sostanza teoretica addirittura scientifica, quasi epistemologica della sua ricerca poetica e spirituale.

Per questo, Matteo e Paolo, l’“umile” mimesis e l’apodittica acribia intellettuale (mistica, mitica e teologica), l’oggettività quasi diaristica e realistica e la “sacralità buffonesca” (dell’Altrove e dell’Oltranza, dell’Archetipo), straniata, alienata, sciamanica, parodica ed “arguta”, rappresentano i due momenti essenziali del suo sentirsi “cristiano” e insieme “rivoluzionario”, radicalmente, un cristiano del “rifiuto” e insieme della “condivisione”, totalmente libera, simpateticamente “dissenziente”.
Pittorico e poetico, infatti, è stato il suo essere al mondo, il suo esistere come uomo e come creatore di versi, faber caelestis, ed in quanto saggista e regista, narratore e scrittore di teatro, affabulatore e polemista: si intersecano così slancio lirico e abbandono elegiaco, manierismo, intimismo ed espressionismo, simbolismo metaforico e onirico e sperimentalismo, pathos filologico, discorsività e mitologia apologetico-interiore, vis pedagogica e testimonianza , fin’anche ascetismo e misticismo catartico (di matrice orientale), insieme il letterato e l’intellettuale
“non organico” da una parte, la persona e il suo “vissuto” dall’altra, con tutto quello che ne deriva in termini di resa espressiva diretta.
Si spiega perciò come la sua scrittura, fenomenologica e connotativa, onnivora e pluridimensionale, riveli un “processo formale vivente”, a più strati e in fieri continuo, a suo modo frammentario e insieme unitario, aforistico, rapsodico e, nel contempo, totalizzante: niente del pur tanto amato Pascoli né tanto meno dell’estetismo panico-sensuale di un D’Annunzio o, di rovescio, del crepuscolarismo più fatuo e cantilenante, romanzesco e colloquiale.
D’altra parte, l’esaurimento e il superamento del decadentismo storico (e dei suoi stanchi epigoni) e del rispecchiamento neorealistico, di cui pure in parte si nutre l’opera di Pasolini, era stato teorizzato e realizzato in chiave continiana e stilcritica (e longhiana), semiologica e sociologico-letteraria, oltre che psicoanalitica, nelle illuminanti ed originalissime proposte interpretative de Il portico della morte, di Passione e ideologia, Empirismo eretico e di Descrizioni di descrizioni, vera e propria officina teorico-critica e “militante”, ma anche tentativo di sistemazione storicizzante del sapere e della ricerca critica di Pasolini, in diretta e interagente relazione col succo vitale ed eteronomo delle sue “nuove” realizzazioni espressive e creative: dalle Ceneri a Poesia in forma di rosa, dalla Religione del mio tempo a Trasumanar e organizzar a La nuova gioventù, fino agli esiti “finali” e “tragici” di Calderòn, la Divina Mimesis, alla proda degradata e autobiografica, esibizionistica e patologica di Petrolio.
D’altra parte, si comprende a pieno (ma Pasolini l’aveva già puntualmente capito, espresso e anticipato), come alla religiosità di fondo, materia già di per sé incandescente ed estremamente stimolante nell’opera del poeta di Casarsa, suo filo conduttore spirituale ininterrotto (anche se aggrovigliatissimo) di analisi storica e personale, oggettiva e soggettiva, faccia quasi da controcanto, la voce, solista, unica e irripetibile, ed insieme corale, del Pasolini indagatore e fustigatore dei costumi, della società e della politica contemporanee (la così detta “globalizzazione”, che Pasolini aveva chiamato più precisamente e icasticamente “omologazione” e “genocidio”), dei loro affarismi e consumismi (espressione del Nuovo Capitale), specchio di una realtà alienante e impura, appiattita, repressiva, negatrice della stessa anima antropologica delle persone, della natura e delle città, oltre che delle collettività e della loro cultura.
Gesù Crocefisso e Stracci, Ettore e Riccetto, Gennariello, Edipo e Accattone, Alì e l’Ebreo, l’Arabo e il Negro, San Paolo e il foscoliano-leopardiano Gramsci “carcerato”, Calderòn e Sade, Medea e Ninetto, rappresentano i segni diversi, le figure variegate, anonime ed eteronome, spontanee e riflesse, storico-letterarie e sociali, della pasoliniana “semiologia” del sacro, per cui fisico e metafisico, immanente e trascendente, materia e spirito, natura e storia, si combinano, si conciliano e si contraddicono nella “sineciosi” ossimorica che caratterizza l’inquieto e appagante, manieristico e masaccesco “sistema” religioso
di Pasolini, crudelmente aggressivo e baroccamente “caotico”, narcisistico, impossibile, utopico, visionario, ma nel contempo puro, “celeste”, originario, tendente all’Ordine e alla Luce, emblema cristico del Sacrificio e del Martirio, atteso ed evocato. Una luce ontologica e umbratile, carnale e divina, unità di Parola ed Essere. Una luce (con echi caravaggeschi, da Pontormo a Velasquez), quasi iniziatica ed esoterica, ierofanica, che si rivela sempre come “altro” dal profano, ma che si esprime in esso come mezzo rivelativo, simbolo del sacro, e che via via diviene personificata e recitata, vissuta e glorificata, orrendamente “santa” e martoriata, edenica e infernale.
Franco Di Carlo