Lo sguardo rivolto all’esterno della Casa Colussi, sede del Centro Studi Pasolini di Casarsa (Pordenone), è la focalizzazione fisica di un punto d’avvio per un viaggio immaginario attraverso gli stessi luoghi che nel periodo della guerra ‘42- ’45 e poi fino al 1950 vedono il poeta protagonista di un rapporto stretto con l’ambiente naturale e umano di Casarsa.
O me donzel! Jo i nas / ta l’odòur che la ploja / a suspira tai pras / di erba viva…I nas / tal spieli da la roja. // O me giovinetto! Nasco / nell’odore che la pioggia / sospira dai prati / di erba viva…Nasco / nello specchio della roggia. (“O me donzel / O me giovinetto”). L’incanto per la bellezza diventa stordimento dei sensi di fronte alle espressioni e alle voci della natura che nella loro purezza contrastano con la perdita di un legame d’autenticità con le cose più semplici della realtà. È in embrione la filosofia dell’essenziale, il pensiero rivolto ai temi nati e alimentati dal mondo circostante, quello di Casarsa e delle sue prossimità, i campi e il loro rivestire anche il tratto simbolico, che esprime con chiarezza il nesso tra le capacità dell’uomo e i frutti della terra che ne compensano le fatiche, insomma il suo modo di relazionarsi con le presenze del creato, i ritmi comunicativi delle sue emozioni, la ragione primaria delle sue inquietudini. La vierta a duàr lizèra / in tal prat trasparìnt, / nenfra il vago da l’erba / e il clìpit dal vint. // La primavera dorme lieve, / sul prato trasparente, / fra il vuoto dell’erba / e il tepore del vento. (“Cansoneta /Canzonetta”)

Nato nel 1922 a Bologna dove si laurea in lettere, dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale viene accolto laddove la mamma Susanna Colussi ha le sue radici. Non è un caso che “Poesie a Casarsa” costituiscano la prima opera, in cui l’adozione del dialetto è il dato estrinseco di un’adesione profonda all’ambiente, vissuto nelle sue dinamiche più vicine alle risonanze arcaiche. Pasolini lo pubblica a Bologna nelle edizioni della Libreria di Mario Landi nel 1942.
Fontana di aga dal me pais. / A no è aga pi fres-cia che tal me pais./ Fontana di rustic amòur “Dedica”
In quel concetto di rustico amore si alimenta il rapporto di Pasolini con il mondo dei suoi antenati di parte materna, in cui va a scavare con la curiosità tipica dell’intellettuale attento a registrare le sollecitazioni più varie della realtà, con la tensione del filologo che dall’espressione consueta della gente preleva motivi da innestare nelle sue esigenze estetiche e fibrillazioni creative, diramate poi in molteplici direzioni (la letteratura, la saggistica, l’arte, il cinema).
Il suo itinerario poetico ed esistenziale ha il paese della destra Tagliamento come punto di partenza e di arrivo e disegna nel suo destino un’orbita iniziata e conclusa proprio qui, dove la sua poetica ha mosso i ritmi di un verso capace di alimentarsi sulla realtà, sui simboli, sulle atmosfere, sulle persone del luogo.
Le foglie dei sambuchi, che sulle rogge / sbucano dai caldi e tondi rami, / tra le reti sanguigne, tra le logge / giallognole e ranciate dei friulani / venchi, allineati in spoglie prospettive / contro gli spogli crinali montani, / o in dolci curve lungo le festive / chine delle prodaie…“Quadri friulani” (versi 22-29)
C’è una sorta di mappa sentimentale — per noi che leggiamo Pasolini — che registra tutte le emergenze fisiche e simboliche, i riferimenti per una ricostruzione del nesso tra la geografia dei luoghi e l’azione del poeta impegnato su vari piani durante la sua permanenza a Casarsa. Il Duomo di San Giovanni e a pochi metri un piccolo edificio, risonante di ricordi che rimandano all’azione del giovane Pasolini come attivista del Partito Comunista Italiano; qui i manifesti si sono susseguiti in parallelo con il ritmo delle discussioni, aperte nel periodo sulle questioni di natura locale fino a quelle di rilievo più vasto e complesso dello scenario nazionale e internazionale.
Ah, rondini, umilissima voce /dell’umile Italia! Che festa / alle pasquali fonti, alle foci / dei fiumi padani, alla mesta luce della piazzetta, dei noci, / dei filari a festoni da gelso / a gelso… “L’umile Italia” (II, vv. 1-7)
Il paesaggio offre diversi punti che hanno una decisa valenza evocativa; a Versuta la roggia Versa dalla cui acqua affiora una fitta vegetazione di piante fluviali in quantità sovrabbondante. Il Casel vicino al corso della roggia stessa, in mezzo a un campo dove sono allineati filari di un vigneto, è un edificio utilizzato in origine per custodire gli attrezzi agricoli, apparentemente di un valore pari a quello di un rudere. In realtà conserva l’“aura” della presenza pasoliniana in quanto il poeta, quando il tempo e la stagione erano favorevoli vi si trovava con i suoi allievi.

Pertanto anche questo casello in rovina è capace di esprimere una marcata risonanza simbolica. E procedendo un po’ più avanti possiamo vedere la Chiesa di Sant’Antonio Abate, che risalta in una posizione frontale mentre il lato strada è ornato da bellissimi gelsi, simbolo di un’agricoltura arcaica e, oggi, elemento ormai di una decorazione inscindibile dal paesaggio rurale friulano, memoria di una lunga tradizione del baco da seta e segnale indicatore dei confini agricoli.
Pasolini, che durante il conflitto mondiale è sfollato con la madre a Versuta, qui agli inizi del ’45 fonda l’Academiuta di lenga furlana, tesa a valorizzare la lingua e la cultura friulana.
Al centro di Versuta, nella piazzetta accanto alla Chiesa, è da segnalare anche la fontana a due bocche d’acqua, che sembra sgorgare davvero da una sorgente di rustic amòur, portando incisa la sintesi del concetto de “La meglio gioventù”, che è titolo della seconda
opera poetica del 1954. Il legame con Casarsa quale perno autobiografico generatore di una riflessione ampia e profonda sul carattere sociale del mito friulano, in un vortice di suggestioni letterarie da Pascoli ai simbolisti (soprattutto Mallarmé e Rimbaud), da Lorca a Machado, fatte convergere verso una cifra espressiva che appartiene poi completamente a Pasolini.
Fantassùt, al rit il Sèil / tai barcòns dal to paìs, / tal to vis di sanc e fièl / serenàt al mòur il mèis. // Giovinetto, ride il Cielo / sui balconi del tuo paese / sul tuo viso di sangue e fiele, / rasserenatosi muore il mese. “Ploja tai cunfìns / Pioggia sui confini” vv. 9-12
La questione della lingua è stata molto dibattuta e per alcuni versi ancora irrisolta; resta il fatto che il friulano di Pasolini è capace di trasmettere sensazioni che la traduzione in italiano solo in parte sa proporre. In proposito l’autorevolezza di Gianfranco Contini ci illumina con chiarezza la distanza tra l’originale e la versione, peraltro utile ad avvicinare al mondo poetico di Pasolini quei lettori che sono estranei e lontani da quella forma espressiva. In una pagina del Corriere del Ticino, il 24 aprile 1943, parlando della piccola raccolta “Poesie a Casarsa” il critico non manca di rilevare la “non bella traduzione”.
Il legame dello scrittore con il mondo contadino si alimenta di una continua osmosi tra il dialetto e l’idea del mantenimento delle tradizioni che si avviano comunque a un’inversione di tendenza dopo gli anni ‘50, con l’avvento dell’industrializzazione diffusa anche in zone a vocazione agricola.
Il suo sguardo rivolto al mondo contadino è qualcosa di più profondo della semplice simpatia per un universo slegato ancora dal rischio dell’omologazione e vicino a un altro pericolo, quello di poter essere eroso dall’assimilazione il più delle volte inconsapevole da parte di elementi culturali estranei, che minacciano sempre più d’essere i veri responsabili della perdita d’identità.
Per questo nella sua opera ha un ruolo centrale l’uso del dialetto, quello di Casarsa conosciuto prima attraverso la mediazione della madre, originaria del luogo, poi nel contatto diretto con i giovani e le persone in genere, prima nei soggiorni estivi poi nel periodo bellico in cui mamma e figlio sono nel paese della Destra Tagliamento, apparentemente più sicura in questo periodo di gravi accadimenti, dovuti alle vicende della guerra, che nel suo segmento resistenziale registra anche la morte di Guido il fratello.
Ma a che fòuc ch’al nulìs / a mi mancia il rispìr, / e i vorès essi il vint / ch’ala mòur tal paìs.//Ma a quel fuoco che profuma // mi manca il respiro, / e vorrei essere il vento che muore nel paese. “Tornant al paìs // Tornando al paese” vv. 9-12
Il friulano usato è una lingua con un impianto strutturale che assorbe nella propria logica semantica prestiti anche veneti e ha una precisa caratteristica che lo differenzia da quello parlato; anche per questo appare lontano dal tratto vernacolare e si segnala per quella solida fusione di schiettezza arcaica ed elegante essenzialità.

Pasolini stesso avverte: “L’idioma friulano di queste poesie non è quello genuino, ma quello dolcemente intriso di veneto che si parla nella sponda destra del Tagliamento; inoltre non poche sono le violenze che gli ho usato per costringerlo ad un metro e a una dizione poetica.”
Nel gennaio del ’43 sulle pagine de La ruota, il pensiero di un poeta raffinato come Alfonso Gatto è molto indicativo in proposito: “L’amore per la poesia provenzale ha condotto Pasolini a tentare e a trascrivere nella dolce e barbara vocalità del dialetto i moti della sua sensibilità esperta e letteraria, quasi a tentare un pudore e una ingenuità da laude antica per le proprie scoperte pienezze formali, per le preziose finitezze di gusto retorico e figurativo di cui la sua ispirazione è criticamente partecipe.”
Il periodo permeato dal mito contadino può essere segnato dai due poli della “Poesie a Casarsa” e “L’usignolo della Chiesa Cattolica”. Nell’approccio a quest’ultima opera ci aiuta l’affermazione di Giuseppe Leonelli nella prefazione a “Le ceneri di Gramsci”: “Pasolini rimase nell’organizzazione profonda della psiche, per tutto l’arco della non lunga vita, il fanciullo dell’Usignolo della chiesa cattolica, l’innamorato di sé, per il quale il mondo risulta un’espansione vertiginosa e straziata del proprio io.”
Jo i soj na viola e un aunàr, / il scur e il pàlit ta la ciar. // Io sono una viola e un ontano, lo scuro e il pallido nella carne.“Dansa di Narcìs // Danza di Narciso” II.
Uno dei tratti fondanti della poetica di Pasolini e del suo complesso mondo interiore è l’intensità del rapporto con la mamma che emerge in tutta la sua potente dolcezza nella Supplica alla madre.
È significativo in tal proposito che quando il poeta girò nel 1964 “Il Vangelo secondo Matteo” fece interpretare proprio alla mamma il ruolo di Maria. Scrive Enzo Siciliano: “Questa scelta fu un gesto dichiarativo d’amore per lei, ma segna anche l’esplicarsi di un cristianesimo arcaico, quasi inattingibile dalla ragione: interpretare la figura di Maria di Nazareth come madre “unica”, identificabile soltanto nella propria madre.”
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. / Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…“Supplica alla madre” (vv. 19-20)
Pasolini viene riconsegnato a quella terra a cui è stato sempre devoto in un vincolo che si muove tra uno slancio religioso primigenio e un’idea poetica di scrigno, dove le tradizioni mantengono quasi inalterate le loro fisionomie. La nudità della pietra tombale contrassegnata dal nome, dal cognome e dai dati anagrafici, viene riscattata da un alloro che la sovrasta e con la geometria della sua chioma richiama il senso di un’esistenza capace di protendere oltre il segmento vitale il pensiero e l’adesione a una terra, che è stata materna non solo per i natali di Susanna Colussi.
Enzo Santese