Tra molte scelte discutibili degli ultimi anni, la collana dei “Meridiani” Mondadori è senz’altro ritornata allo splendore di un tempo pubblicando di recente l’opera omnia di Camillo Sbarbaro (Poesie e prose, a cura di Giampiero Costa). Nato a Santa Margherita Ligure, ma genovese di adozione, Camillo Sbarbaro (1888-1967) dopo alcune poesie giovanili emerse con la raccolta Pianissimo, pubblicata nel 1914 dalla Libreria della “Voce” di Giuseppe Prezzolini. Una raccolta apprezzata da molti – Boine, Cecchi e Pancrazi tra questi – e che lo vide affermarsi e consolidarsi nel lungo periodo, insieme a Clemente Rebora, come il poeta di maggior rilievo tra i vociani. Eugenio Montale lo riconobbe come il suo maestro e gli dedicò, dipingendolo “estroso fanciullo”, due epigrammi degli Ossi di seppia. Poeta tormentato e riflessivo, Sbarbaro privilegia nella sua poesia una tonalità dimessa, con un senso linguistico dello scabro e dell’essenziale che influenzerà direttamente la prima lirica montaliana. Il tono prosastico dei suoi versi dà loro una chiara pronuncia antieloquente, che lo avvicina senz’altro nel primo Novecento italiano a Umberto Saba, nella qualità esistenziale e nella dolorosa urgenza di un canto che denuncia “il grande deserto del mondo”.
La sobrietà timbrica sbarbariana e l’alone di indefinito che avvolge atmosfere e luoghi schiude l’irrequietudine palpitante dell’uomo che incontra il nulla quotidiano, senza miraggi politici di palingenesi né certezze religiose. Nella sospensione amletica dell’io e del suo destino, il poeta è ora spettatore ora soggetto in discussione, coinvolto e plasmato da un orizzonte metafisico vuoto, che ricorda spesso le piazze cittadine desolate della pittura coeva di Giorgio De Chirico: “Che la città mi pare / sia fatta improvvisamente vasta e vuota, / una città di pietra che nessuno / abiti, dove la Necessità / sola conduca i carri e suoni l’ore. // A queste vie simmetriche e deserte / a queste case mute sono simile. / Partecipo alla loro indifferenza, / alla loro immobilità”. Questa tensione e il suo sordo dolore ribelle sono presenti anche ne La città di Giovanni Boine, laddove gli uomini non avevano tratti di realtà ma erano solo parvenze; mentre quando la città si anima di presenze baudelairianamente perdute nella notte, agitando il ventaglio sensibile dell’uomo tra il godere e il soffrire, la Genova sbarbariana ha assonanze con quella di Dino Campana, pur senza assorbirne il tono ritmico-allitterativo e il magnetismo ciclopicamente delirante.
Benché poeta tormentato, Sbarbaro mantiene sempre la tonalità di “pianissimo”, agli antipodi sia dalla violenza espressiva di Clemente Rebora o di Ardengo Soffici, sia dal brioso sperimentalismo lirico di Piero Jahier (un altro poeta di cui auspicheremmo vedere l’opera omnia pubblicata nei “Meridiani”!). Sbarbaro non compose solo poesie, bensì anche prose – benché, nonostante i commenti favorevoli di Montale e di Bo, esse siano oggi ancora sconosciute ai più. Vorrei soffermarmi qui su due ambiti di scrittura narrativa. Il primo riguarda le prose sulla prima guerra mondiale, che vide Sbarbaro impegnato dapprima nelle retrovie, poi dall’estate 1917 al fronte. Il poeta attraversò molte zone di guerra, tra cui il Trentino e il Sud Tirolo, da poco conquistati dall’Italia: acute e inquietanti le sue osservazioni e i ricordi, in un mosaico in cui la profonda ricerca dell’io è di non perdere la luce intima della propria autenticità. Altre raccolte in prosa – dai titoli vagamente civettuoli, come Trucioli, Liquidazione, Scampoli, – descrivono con tratti brevi e impreziositi da un’affettuosa ironia gli attori e gli scenari della commedia umana della Genova povera, inframmezzati da qualche ricca signora e da qualche borghese: creature della vita e del dolore sull’altra sponda del Mediterraneo, fiori semplici e veri nella megalomania strisciante della storia a venire.
Enrico Grandesso