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Le ragioni della poesia in Gian Mario Villalta

È in uscita il libro Villalta e la poesia dell’al­trove, a cura di Marta Celio e Bonifacio Vin­cenzi, edizioni Macabor, dove è inserito il contributo critico che segue. Nel suo recente saggio La poesia. Ancora? (Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni /Milano, 2021) emergono spunti critici significativi su molteplici versan­ti che consentono di andare a ritroso nella sco­perta dell’opera, ormai sostanziosa nei numeri e nella qualità, di Gian Mario Villalta, autore di un ventaglio di scritti in poesia e in prosa accomunati da una tensione tipica del “rac­conto” di formazione, utile a seguirne passo dopo passo il cammino esistenziale e lo svi­luppo intellettuale e poetico. “Scrivere/leggere una poesia è un sostare in quella dimensione in cui la percezione del vissuto è sospesa e aper­ta; ma non si tratta di un sostare inerte, bensì di un coinvolgimento nell’operare dell’opera.” E questo concetto della percezione assieme a quello dell’attenzione è il perno attorno a cui ruotano tutte le altre riflessioni, che possono avere un riverbero in certe modalità di scrit­tura del poeta di Visinale.

Chi “milita” nel mondo della poesia con una riconoscibile fisionomia espressiva, quando si dedica alla critica la frequenta talora con quell’atteggiamento tipico di chi traccia le coordinate di un’analisi sul solco della pro­pria esperienza e, già in questo, lo slancio di profondità dello sguardo è condizionato dalla serie di convinzioni nate dalla personale re­altà creativa. Gian Mario Villalta per contro, nei suoi interventi, mostra come sia possibile procedere nell’una e nell’altra disciplina sen­za far perdere la quota di autonomia neces­saria che poggia sul valore specifico che l’au­tore assegna ai due generi (poesia e critica) e sull’eventuale interdipendenza reciproca. “La parola poetica si offre generosamente e spericolatamente anche oltre i confini che il pensiero pone alla meditazione, e per questo non si illude certo di portare facili risposte, ma può forse contribuire a guadagnare an­cora un po’ di impensato”. (GIAN MARIO VILLALTA, La costanza del vocativo. Lettu­ra della trilogia di Andrea Zanzotto, Guerini e associati editori, Milano, 1992, pag. 132).

È proprio su quel margine di “impensato” che Villalta rischiara il cono d’ombra della sua “postazione visiva e sensoriale”, utile a perce­pire la realtà cominciando da quella dei suoi anni giovanili. Nel tratto autobiografico gli eventi importanti e le vicende spicciole della sua storia personale contrappuntano un itine­rario che procede per intermittenze create da episodi, situazioni, persone, persistenti nella sua coscienza come sedimenti preziosi di una sensibilità in continuo rapporto dialettico con quelle “presenze”.

Lo conferma il suo sostare nel bel mezzo di una landa autobiografica in cui il dato della memoria congiunge l’Io e il Sé dell’autore in una sintesi offerta alla conside­razione del lettore e alla sua potenziale condi­visione. Nelle prime prove ci sono vari segnali indicatori di quello che è poi il suo pensiero tradotto in poesia; Altro che storie! (Cam­panotto, 1988) e Vose de Vose / Voce di voce (Campanotto, 1995 e 2009) sono la piattafor­ma di partenza che è poi il punto d’arrivo per altri futuri “ritorni” nello spazio-tempo del suo vissuto. L’utilizzo del dialetto di Visinale nella seconda silloge è un’ulteriore conferma, ribadita in seguito in una plaquette densa di sollecitanti richiami all’ambiente originario e al confronto continuo con l’attualità.

Nel saggio La poesia, ancora? Gian Mario Vil­lalta affida all’interrogativo problematico del titolo il dato di una preoccupazione, tipica di chi in quel mondo milita a pieno titolo, di ri­tagliare per la poesia un’area che ne giustifichi l’esistenza. Il poeta rende visibile il suo oriz­zonte gnoseologico non solo quando fa lavoro di approfondimento critico, ma anche quando comunica il dato del suo viaggiare nella dina­mica dei versi, anzi spesso l’una e l’altra ten­sione creativa sembrano quasi sovrapporsi in un seducente movimento di intercambiabilità di modi e funzioni.

Nel terreno specifico della produzione poetica, tre mi paiono le prove in cui la ricerca di Vil­lalta si qualifica per quel valore di riconoscibi­lità che rende un autore difficilmente confon­dibile con un altro, pur presentando momenti di sfumata assonanza con l’opera e il pensiero di vari autori. Ma questo è il risultato di un se­dimento culturale che Villalta sa elaborare in proprio dentro uno stile adeguato all’esigenza di immediatezza e autenticità. Il che non si­gnifica assolutamente che l’operazione di sca­vo e di costruzione poetica non passi al vaglio di una rigorosa capacità di filtrare il linguag­gio fino alla sua cifra più scarna ed essenziale.

La piccola silloge del 2001, Nel buio degli alberi (edizione del Circolo Culturale di Me­duno /Pordenone) precisa la spinta all’episte­me verso molteplici approdi multidisciplina­ri, in un intreccio suggestivo ed equilibrato fra etologia, neuroscienze, antropologia, uno scavo nella memoria che non è solo prelievo e affastellamento di “reperti” sullo scenario contemporaneo, ma scandaglio analitico del­le radici e dei loro riflessi sul presente, la fo­calizzazione di un dato rappresentativo della realtà sul piano linguistico, testuale e visivo.

In 20 brevi poesie passa un’energia percetti­va che esorcizza il dato negativo del buio e lo trasforma in condizione fondamentale per catturare la luce. In Vedere al buio (Sossella, Roma, 2007) la condizione d’assenza di luce si riconferma come l’ipotesi ideale per una percezione a tutto tondo; Giorgio Nisini (Cfr. Poesia 2007-2008, annuario, a cura di Paolo Febbraro e Giorgio Manacorda, Alberto Gaffi editore, Roma, 2008, pagg. 348-349) affer­ma che “risolve in termini positivi un deficit percettivo di partenza. Siamo di fronte a due istanti di una medesima azione: l’istante d’in­gresso (“nel buio degli alberi”) e l’istante di adeguamento visivo (“vedere al buio”). È per questo che nella raccolta c’è una sezione in­titolata appunto Nel buio degli alberi con 12 delle 20 poesie del precedente libello. L’ossi­moro del titolo è solo formale, in realtà i due concetti che lo compongono sono complemen­tari nell’idea di un prima (il buio che prepa­ra l’apertura dello sguardo) e il dopo (la luce che consente di percepire). Vedere è anche la condizione per innescare il meccanismo del ri­cordo, illuminare situazioni sopite temporane­amente nella coscienza.

Equivale a sprofondare – come dice Calvino – nell’“irrealtà del mondo” (ITALO CALVINO, Forse un mattino andando, in AA. VV., “Let­ture montaliane in occasione dell’80° comple­anno del poeta”, Bozzi, Genova, 1977) e tor­nare ogni volta in superficie con abbondante materiale per la comparazione con l’attuali­tà”. Merleau -Ponty (MAURICE MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, tra­duzione di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano, 1965, pagg.151-211) è un punto di riferi­mento essenziale per lo scrittore “cubano”, da cui mutua l’idea delle “pagine molto belle sui casi in cui l’esperienza soggettiva dello spa­zio si separa dall’esperienza del mondo ogget­tivo (nel buio della notte, nel sogno, ecc.)”. In Vanità della mente, (Mondadori, 2011) l’incontro di numerosi motivi generatori costi­tuisce il reticolo concettuale su cui poggia la tessitura dell’opera, variegata nei temi ma an­che negli umori che stanno alla base della ri­flessione o del mero appunto affidato al ritmo dei versi. La filigrana autobiografica sbiadisce i propri contorni nell’incontro tra spinta sog­gettiva e approdo oggettivo offrendo un am­pio ventaglio di possibilità interpretative, utili all’ipotetica condivisione di chi legge e mate­ria pulsante per una discussione sugli aspetti peculiari del territorio personale, dove gli af­fetti sono il collante che unisce le persone, le cose, la fisicità del paesaggio.

“Odore di cene­re bagnata e terra / fino a quando, entrando, ci assale / il dolce chimico dei miasmi.” Nella poesia L’invaso gli elementi di una geografia del vicino si affastellano in una sorta di map­pa dell’anima che attutisce anche il ricordo di esalazioni sgradevoli. La tensione sineste­tica tra le cose viste e quelle udite, come nella poesia Sera “La lingua perduta degli stormi /che alti si adunano nella luce / La lingua dei perduti per una parola // non detta, per una parola distorta pervenuta all’orecchio.” Il dato linguistico è capace di creare il ritmo del verso rifuggendo dalla metafora, ma con un incalzare del correlativo oggettivo, inteso nella forma nuova che appartiene interamen­te a Villalta.

C’è nelle sue parole la vibrazio­ne emotiva, mai prevaricante peraltro sull’a­sciuttezza del racconto che procede su una logica grandangolare, che può inquadrare nell’obiettivo della sua sensibilità per la natu­ra un indugio, per esempio, sull’osservazione di quanto gli animali sanno comunicare con i loro “atteggiamenti”, un empito – se possibile – di solidale vicinanza con loro, troppo spes­so vittime dell’insensatezza delle persone, che peraltro nel discorso del poeta sono protagoni­ste assolute nel bene (nella semplicità della fe­sta domestica) e nel male (i momenti di dolore lacerante nel distacco). Il tutto si muove su un palcoscenico naturale che è la terra d’origi­ne, dove cova il segreto delle radici che fanno maturare gli eventi esistenziali, e dove le vi­cende si inanellano in corollari evolutivi molte volte mutati in sudari del vivere.

Il poeta di­chiara a chiare lettere l’appartenenza piena a quel mondo per il quale la lingua dialettale, il veneto specifico di quell’area, è spesso ele­mento di incancellabile vincolo di contiguità, altre volte di compenetrazione sostanziale nel modo di vedere la realtà, nelle forme di un’at­titudine a sedimentare nella propria coscienza i colpi della sorte, negli slanci a eleggerli ad armi di reazione verso obiettivi capaci di esor­cizzare le valenze negative del buio e farle di­ventare approdi di luce, pur se momentanea. È quanto per altri aspetti e con differenti in­tendimenti si può leggere nel recente romanzo Bestia da latte (Edizioni Sem) dove Villalta, agendo appunto sulla memoria mai peraltro come lente deformante della realtà, sa resta­re a una distanza di sicurezza emotiva” dagli eventi che si inanellano, nel pieno degli anni ’60, in una lunga sequenza di punti segnati a scandire lo sviluppo del vissuto a quel tem­po, ancora lontano dal benessere nella parte di Friuli che confina col Veneto. Il tutto in una scrittura che squadra con precisione linee di paesaggio, fisionomie di persone che faticano a diventare personaggi per quel ritmo rallen­tato dalla prosa asciutta che non ha indugi di autocompiacimento sulla bellezza delle paro­le, ma sulla bruciante realtà emersa dall’at­tenzione alle cose.

Sia nella poesia che nella narrativa si tende un filo di comune tensione verso una realtà “familiare” che allarga i suoi effetti e river­beri a un’area molto più dilatata, nella quale possono venire cooptati anche lettori di una geografia più remota. Nel romanzo L’appren­dista (Sem, 2000) lo dimostra la vicenda di Fredi e Tilio, svolta quasi tutta all’interno di una chiesa di paese; ma la loro comunicazione varca quell’ambito e si distende in un’area di sensibilità diffusa riguardo al disagio, molte volte nascosto nelle cerimonie di una socialità spicciola, nei confronti della “troppo vigile” e capziosa curiosità delle abitudini quotidiane delle persone in genere. Qui si sbalzano con evidenza il ruolo della memoria di un’età pas­sata e la percezione di un tempo in inesorabile divenire, mentre ferve la ricerca di un con­forto nell’amicizia che sana anche il rapporto con la realtà esterna.

LORELLA FERMO, Gian Mario Villalta 2, cm 21 x 29, tecnica mi­sta su carta, 2022

Le modalità di approccio alla realtà (nell’ambito della poesia che, pe­raltro, tocca e investe anche molti tratti del­la narrativa) teorizzate nel saggio La poesia oggi. Ancora? non sono per nulla dissimili. La filigrana dell’analisi nasce da una conoscenza della tradizione che diventa consapevolezza del fatto espressivo, muovendosi il poeta nel territorio che gli è più consono, in un reticolo di approdi espressivi, dal livello lirico alla nar­razione, dall’impegno d’approfondimento cri­tico allo slancio d’immaginazione. Gian Mario Villalta, vivendo al di qua di quella soglia ol­tre la quale brulica l’occasionalità del poetare, non esaurisce il suo lavoro di scavo nella sosta compiaciuta dentro la tradizione, ma esprime la sua qualità primaria proprio nel percorso che fa in direzione di una personale messa a punto del suo pensiero sulla pagina poetica.

Enzo Santese

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