Tra le diverse ricorrenze letterarie di prestigio del 2022, una delle più interessanti è il centenario della nascita di Luigi Meneghello (Malo, 1922 – Thiene, 2007), “scoccato” il 16 febbraio scorso. Egli è stato un outsider della nostra letteratura, le cui vicende ha osservato dal suo scranno di docente universitario a Reading, dal 1948 al 1980, mentre la sua scrittura si è contraddistinta per la coinvolgente e preziosa abilità di rievocare, in uno sguardo storico condito di ironia, la lingua, la società e la cultura del Veneto – e di riflesso dell’Italia – dal ventennio fascista al primo dopoguerra.
Meneghello esordì a quarantun anni, nel 1963, con Libera nos a malo, il romanzo per cui è più conosciuto dal grande pubblico. È un’opera ricchissima di motivi, tra l’impetuosa vivacità di narrazione e passaggi di nostalgia, tra humour e riflessione. L’autore vi impasta, in un collage di trentuno capitoli, le vicende personali e di un minuscolo paese delle colline alto-vicentine dagli anni Venti agli anni Quaranta, scorrendo con il filtro revisore dell’adulto i linguaggi del bambino, dell’adolescente e del giovane (dapprima studente universitario, poi partigiano tra l’8 settembre e fine aprile 1945 quando Padova, dove studiava, fu liberata). Il discorso narrativo di Meneghello, come ha osservato Giulio Lepschy nell’introduzione al volume dei Meridiani Mondadori, si svolge in una lingua colta, un italiano che si fonde con inserimenti da altre lingue: inglese, francese, latino. Ma soprattutto dal dialetto – in anni in cui il mélange lingua-dialetto caratterizzava la ricerca di scrittori quali Gadda, Testori e Pasolini.
Un dialetto che in Meneghello risale dalle profondità della vita e dalle prime ricezioni conoscitive: qui si uniscono in un prezioso scrigno suoni, sensi e memoria. Come nelle filastrocche: “El Conte de Milan / co le braghe in man / col capél de paja / conte canaja!”; “Alioleche tamozeche / taprofita lusinghé / tulilan ben blu / tulilan ben blu”; o nei modi di dire e ritornelli quotidiani, che l’autore tramuta in jeu d’esprit: “Ramona / co na palanca se va in mona. Mi pareva una bella canzone, un po’ triste, con quel richiamo alla rovina economica che capita fatalmente a chi non possiede altro che dieci centesimi: una cosa ovvia, in fondo, ma molto ben detta. Pensavo che sarebbe piaciuta alla mia mamma, ma invece non le piacque affatto”. Meneghello ritornerà a più riprese a questo universo espressivo, ad esempio in Pomo pero del 1974, esplorando la ricchezza di una lingua parlata che non veniva scritta.
Tra le altre sue opere, non vanno dimenticate I piccoli maestri (1964) romanzo antiretorico sulla Resistenza, e soprattutto Fiori italiani (1976) un’ampia e spesso pungente cronaca della sua crescita di studente e di giovane intellettuale tra le mille restrizioni del provincialismo italico, rese ancor più grevi e tragicomiche dal fascismo. Un percorso sofferente, che vide una luminosa via d’apertura nella conoscenza e frequentazione con un giovane antifascista, Antonio Giuriolo, colto e appassionato maestro del dialogo e dell’idea di nuovi orizzonti possibili.
Dopo la guerra, stanco di molte situazioni irrisolte – negli ambienti culturali ma anche in politica – Meneghello colse al volo la possibilità del “dispatrio”, sfruttando la possibilità di una docenza universitaria all’estero, che lo avrebbe assorbito per il resto della vita. Da lì guarderà con un certo distacco – e con qualche commento talvolta sin troppo pepato – alle vicende letterarie del nostro paese. Rimanendo tuttavia legato, con un robusto filo rosso, alla sua Malo: nella sottile contraddizione di una narrativa raffinata, che unisce il plurilinguismo, la sottigliezza e lo humour a cenni di erudizione, ma che ha come suo centro non la Parigi proustiana né la Dublino di Joyce, ma un mite paesello, nucleo dolceamaro di una incessante piccola grande recherche.
Enrico Grandesso