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Il potere salvifico della poesia

La forza della poesia, quando è autentica, è viva fiamma dello spirito e le sue lingue di fuo­co guariscono traumi, rimarginano ferite, il­luminano le tenebre della desolazione, tra­sformando gli scac­chi in occasioni. Lo straordinario libro di Silvia Favaretto “Mo­nologhi della bambo­la vudù”, Faraeditore 2022, opera poetica vincitrice al concor­so “Narrapoetando”, è una vera e propria operazione alchemica. Lo stadio della nigredo, caratterizzato da senti­menti di angoscia e disperazione, si tramuta in humus, terra nera e fertile da cui germo­gliano i semi del riscatto e della speranza. C’è qualcosa di potente in quest’opera che la ren­de per certi versi affine al teatro panico fonda­to da Topor, Arrabal e Jodorowsky: l’autrice mette in scena i propri fantasmi, scandaglia le regioni più oscure e desolate della sua inte­riorità, sonda gli abissi della devastazione, per riemergere da questo viaggio infero, insieme al lettore, risanata e fortificata, disposta ad acco­gliere la vita, pur nella sua disarmonia.

Che cos’è una bambola vudù? È una bambolina di pezza che rappresenta una persona, strumento passivo da parte di chi esegue un rito su di lei, al fine di arrecarle dolore e che talvolta opera con intenti di guarigione. Quest’oggetto ritua­le si configura come un medium potentissimo, come una sorta di capro espiatorio, tramite il quale si può condizionare l’individuo che vi è adombrato. Spesso le si attaccano addosso ca­pelli, pezzi di pelle o di unghie, oppure oggetti che appartengono alla persona in questione, in modo da renderla più somigliante. General­mente la si lega alla tradizione afroamericana del vudù, ma questa associazione è senza fon­damento, tanto più che veniva usata anche nel mondo greco romano e nel medioevo.

Confic­cando degli aghi nel pupazzetto, si arreca del male a chi vi è raffigurato. L’originalità di Sil­via Favaretto consiste nel rendere questo og­getto passivo protagonista di un processo di riscatto: alla bambolina vudù viene data vita, parola e facoltà di scelta. Nel libro niente è come sembra: le poesie, pur sviluppandosi in forma di monologo, ricercano il dialogo con altre figure femminili, specchio e alter-ego della protagonista. Ricorrono con frequen­za immagini di spilli, di aghi, di schegge che rappresentano graffi e ferite più che del cor­po dell’anima. Stracci e stoffa sono descritti come carne viva, che sente e che soffre. Do­mina su tutto un senso di perdita e di dolore, evocato con vigore espressionistico.

L’incontro con l’altro è inevitabilmente un momento di scontro e procura delusioni e ferite, ma at­traverso la sofferenza si giunge a una nuova consapevolezza che libera dalle catene della dipendenza e dell’asservimento. Le ferite così diventano cicatrici. In questa trasmutazione alchemica, il sangue diviene inchiostro per scrivere e la scrittura un farmaco per guarire. Il libro, esplorando le parti più umiliate e of­fese del profondo, conduce molto lontano, in una catabasi salvifica.

La parola poetica si fa benda per guarire, punto di sutura che rimet­te insieme e rimargina. In quest’opera non ci sono solo le poesie di Silvia Favaretto, ma an­che una serie d’immagini in cui compare una bambolina vudù costruita dalla stessa autrice che da tempo si cimenta con successo in vari ambiti artistici: nelle illustrazioni, la bambo­lina progressivamente da soggetto passivo si trasforma in protagonista del suo riscatto esi­stenziale, imparando a impugnare l’arma che la feriva. Accogliendo e dialogando con l’Om­bra alla fine l’ago che la infilzava si tramuta in strumento di sutura che la risana e ricuce il suo corpo con un filo d’oro, facendo risplende­re la bellezza della cicatrice.

Lucia Guidorizzi

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