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Amore e morte in una poesia profetica

Alfonsina Storni (Sala Capriasca, 1892, Mar del Plata, 1938) è considerata una delle prin­cipali esponenti del postmodernismo ispano­americano ed è una figura leggendaria in tut­to il Sudamerica: la sua vita e la sua morte sono state mitizzate fino a diventare reperto­rio della musica popolare, di rappresentazioni teatrali e cinematografiche. La sua biografia, infatti, sembra un romanzo d’epoca, ricco di dramma e colpi di scena. Figlia di migranti, visse la povertà quando suo padre cadde in depressione rovinando l’economia della fami­glia. Sua madre la iniziò al teatro e, risposata­si, la incitò a guadagnarsi la vita in ambienti di dubbia fama, ma Alfonsina voleva studiare. Giovanissima, si guadagnava da vivere can­tando di notte in locali poco raccomandabili e frequentando di giorno una scuola per di­ventare maestra. Il suo primo tentativo di sui­cidio avvenne quando il Preside della scuola venne informato dell’attività notturna della migliore delle sue studentesse. Di lì a poco Alfonsina ebbe un figlio da un uomo sposa­to, che lei amava irreducibilmente e, per non coinvolgerlo rovinandogli la reputazione, si trasferì a Buenos Aires e mantenne suo figlio da ragazza madre dedicandosi ai più disparati lavori finché fu indirizzata alla scrittura e alla pubblicazione dai colleghi poeti della movida letteraria bonaerense. Juan Julián Lastra la convinse a pubblicare il suo primo libro, La inquietud del rosal. Stimata e rispettata dagli scrittori più impor­tanti dell’epoca, ebbe una storia d’amore che influenzò prepotentemente la sua scrittura e la sua visione del mondo maschile, con uno dei più grandi narratori dell’America di lingua spagnola, Horacio Quiroga, autore dei “Cuen­tos de la selva”, lui stesso preda di eventi tra­gici degni di un romanzo nero. La tragicità, l’amore e la morte, permeano i versi di Alfon­sina fino alla decisione di porre fine alla sua vita in seguito alla diagnosi di un tumore in stadio terminale. Prima di gettarsi nelle ac­que di Mar del Plata mandò una lettera con la sua ultima poesia al quotidiano “La Nación”: questo voler spiegare, annunciare il proprio auto-annullamento, appare come un deside­rio finale di poeticizzare persino la morte e di trasformare alchemicamente la sua negatività mutandola in arte, in gesto narrato. Da sem­pre Alfonsina soffriva di un accumulo di an­sie e paure che lei mascherava nei suoi versi taglienti e ironici. La poesia la percepì come rivelazione della nostra condizione, e al suo potere si riferì omaggiandola con numerosi ri­ferimenti metaletterari. Le passioni e i traumi di questa scrittrice latino americana sono dun­que riversati nella sua poesia e domati da una penna severa che li ha incanalati in una forma classica, soprattutto nei primi libri, con l’ado­zione di versi rimati e uso principale dell’en­decasillabo e dell’alessandrino. Nella poesia Alfonsina riversava il suo senso di colpa, la sua irrequietezza ma anche la sua comunione con la natura, appartenenza che sentirà fino alle estreme conseguenze del gesto in cui cer­cò la morte, perché el amor desemboca en la muerte, pero de esa muerte salimos al nacer (l’amore sbocca nella morte, ma da quella stessa morte fuoriusciamo alla nascita).

Silvia Favaretto

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