Conosciamo Antonella Barina e il suo amore assiduo per la ricerca, la sua passione per le avventure intellettuali, l’ardore del suo spirito indomito, ma mai come in questa splendida raccolta di versi ne emerge l’anima più poetante in senso ancestrale. In questa sua silloge Cavadda, Libreria Editrice Urso Avola, giugno 2021, composta da ventisette poesie scritte in lingua siciliana e tradotte dall’autrice stessa in italiano, emerge con evidenza il rigore di una ricerca linguistica che passa attraverso la lingua madre e la koinè culturale di una terra, la Sicilia, che esprime la sua ricchezza simbolica, semantica e filosofica attraverso la parola e il mito.
È un libro meraviglioso, nel senso più antico del termine che ci riporta all’idea di un’opera mirabile per la sua straordinaria bellezza, rarità e intensità, ruotante tutta intorno ai mitologemi che compongono l’immaginario di un’isola che è il centro dell’universo. Dante, nel Purgatorio, nel definirsi in rapporto alla scrittura si diceva ispirato da Amore e pronto
ad annotare quanto il Dio dettava in lui. Parimenti Antonella Barina, scrive queste poesie sotto l’urgenza del dettato materno, quasi in stato di trance, evocando luoghi e paesaggi della sua terra d’origine che sono prima di tutto condizioni dell’anima.
La Sicilia, terra di vulcani, di poeti, di filosofi e veggenti, teatro del mito di Demetra e Persefone, diviene l’osservatorio privilegiato per un viaggio a ritroso, fino alle radici dell’Essere. Un viaggio simbolico che si addensa già nel titolo della raccolta Cavadda, animale evocatore della dimensione solare, dell’energia pulsionale e della natura selvaggia. Non dimentichiamo che la cavalla era un animale sacro a Demetra. La dea, quando suo fratello Poseidone cercò di sedurla, per sfuggirgli, assunse le sembianze di una giumenta. L’immagine della cavadda adombra l’indole di un femminile indomito e selvaggio che sfugge a ogni tentativo d’imbrigliamento e sottomissione.
Sono presenti numerose immagini simboliche, come quella della palma, pianta sacra di rinascita, particolarmente cara ad Antonella Barina, il frutto del melograno, legato a Persefone che si presta ad una riflessione filosofica sull’Uno e sul Molteplice, le Menadi, sacerdotesse di Dioniso e nella poesia che chiude la raccolta viene evocata la grande Demetra, ispiratrice e mentore dell’autrice.
Sotteso tra le righe, vi è un omaggio all’amica e poetessa siciliana Sara Zanghì e al suo romanzo di formazione Nebris in cui si racconta il doloroso ma necessario distacco dalla terra d’origine: nebris è la pelle di cerbiatto indossata dalle Menadi da cui prende nome la catena dei Nebrodi, chiamata così per il colore simile al manto del cerbiatto che assume la vegetazione.
La raccolta si snoda in una serie di poesie che in realtà sono formule magiche, incantazioni, scongiuri in grado di ridestare le potenze del femminile arcaico, ma soprattutto sono un inno d’amore per la Sicilia e per la lingua madre, più propriamente per il dialetto mistrettese, capace di esprimere ricchissime tonalità emotive. Non a caso Mistretta si trova appunto nel parco dei Nebrodi e il suo toponimo pare derivi dal fenicio Am’Ashtart o Met’Ashtart (città o popolo di Astarte), riconducendo ancora una volta a quel femminile sacro di cui Antonella Barina è studiosa da tantissimi anni. Questo prezioso libro è un canto d’amore e un omaggio agli antenati e alle antenate che ancora si aggirano nelle strette valli siciliane ed è un viatico per affrontare il presente in tutte le sue contraddizioni e aporie poiché risveglia e fa circolare la linfa del mito producendo deliziosi frutti di poesia.
Lucia Guidorizzi