A volte immagino che a ognuno di noi, prima della partenza definitiva, vengano dati un foglio e una matita. E ci venga chiesto di scrivere la parola o la frase che riteniamo decisive e fondamentali per comprendere la vita, le cose, il mondo, l’universo. Temo che esiteremmo e che forse riconsegneremmo il foglio pulito e intatto. Fra le numerose parole che ci frullerebbero in testa ne emergerebbe finalmente almeno una capace di affermarsi con coraggio sulle altre? Benevolmente la letteratura viene in nostro soccorso. “Io mi son trovato”, ammette Marlow in Cuore di tenebra di Conrad, “a un capello dall’occasione estrema di pronunciarmi, e mi sono avvisto con umiliazione che probabilmente non avevo nulla da dire. Appunto per questo affermo che Kurtz era un uomo notevole.
Aveva qualcosa da dire, lui. E lo disse.” Non sempre le verità afferrate ed espresse possiedono la fulminea intensità di quella che il mefistofelico Kurtz grida stremato prima di morire: “Quale orrore! Quale orrore!”, o che l’allucinato Caligola di Camus comunica a Elicone: “Gli uomini muoiono e non sono felici”, o che il giovane protagonista del Diario di un curato di campagna di Bernanos sussurra in punto di morte: “Che importa? Tutto è grazia”. A volte, pur conservando la propria pregnanza, la verità si esprime in forme più controllate e distese: “Ogni giorno”, spiega il dottor Henry Jekyll di Stevenson, “io mi avvicinai così a quella verità, la scoperta parziale della quale mi ha trascinato a una così orribile catastrofe: e cioè che l’uomo non è in verità unico ma duplice”. Altre volte si affida alla vaghezza e alla suggestione; è quanto accade a Lily Briscoe in Gita al faro di Virginia Woolf: “Quale è il senso della vita? Ecco tutto: una semplice domanda. Una domanda che poteva non darle tregua con l’avanzare degli anni. La grande rivelazione non era giunta. La grande rivelazione forse non sarebbe giunta mai! Era sostituita da piccoli miracoli quotidiani, illuminazioni, fiammiferi accesi all’improvviso nel buio”. In altre occasioni la verità si ammanta di incanto e di estasi: l’introverso protagonista de Le notti bianche di Dostoevskij conclude la propria breve storia d’amore con questa domanda: “Dio mio! Un attimo di vera beatitudine! È forse poco per riempire tutta la vita di un uomo?”.
Le parole appassionate che il giovane Werther affida al proprio diario prima del tragico suicidio esprimono una verità incontestabile: “Una cosa è ben certa: che non c’è nulla, a questo nostro mondo, di cui l’uomo senta tanto il bisogno, quanto l’amore”. La letteratura comprende e armonizza utile e dilettevole, conoscenza e bellezza, e ci permette di esplorare con eleganza le cose e il loro significato. Daniel Pennac in Come un romanzo afferma che la virtù della lettura “è quella di astrarci dal mondo per trovargli un senso”. In una canzone che mi piace molto e che si intitola “Un senso” Vasco Rossi canta: “Voglio trovare un senso a questa vita / Anche se questa vita un senso non ce l’ha / …/ Voglio trovare un senso a tante cose / Anche se tante cose un senso non ce l’ha” e ancora “Sai che cosa penso / Che se non ha un senso / Domani arriverà”.
Al termine delle sue Sei passeggiate nei boschi narrativi, Umberto Eco assicura che “non rinunceremo a leggere opere di finzione, perché nei casi migliori è in esse che cerchiamo una formula che dia senso alla nostra vita. In fondo noi cerchiamo, nel corso della nostra esistenza, una storia originaria, che ci dica perché siamo nati e abbiamo vissuto. Talora cerchiamo una storia cosmica, la storia dell’universo, talora la nostra storia personale…Talora speriamo di far coincidere la nostra storia personale con quella dell’universo”.
Giancarlo Baroni