Le direzioni molteplici del “viaggio senza bussola” intrecciate nella raccolta intitolata L’andare illogico (Qudu, Bologna, 2016) sembrano comporsi in un Respiro (il titolo della nuova raccolta, pubblicata in questi giorni sempre nelle edizioni Qudu di Bologna) variegato di volta in volta da pulsazioni rallentate o accelerate dallo sguardo ai diversi aspetti di una realtà, capace di attirare nella sua essenza proprio quando il poeta ha l’idea di poterne essere soltanto osservatore.
Le parole stillano da una sorgente dove l’amaro e il dolce si alternano creando un ritmo sostenuto dalla vena malinconica di un autore che non ha paura di mettersi allo scoperto, semmai ha il pudore di una confessione troppo aperta sullo spazio altrui. Il tratto saliente della sua poetica poggia su una tendenza al racconto, ma in ogni sequenza Masini cerca di liberarsi dal narrato, dal clima di aderenza alle vicende personali impegnando una sillabazione leggera, capace di attestare una provenienza tutta interiore. “Raccontare è facile come dimenticare / ma l’ultimo sorriso come l’ultimo pianto / macchia dentro, un alone indelebile / stringe senza stritolare né liberare l’energia.” Muovendosi sulla linea tra incanto e disincanto, Masini entra nella carne viva della propria vita isolando i momenti attorno a cui la temperatura esistenziale ha registrato casi di inquietudine, attimi di gioiosa condivisione dell’esistente, momenti di paura di fronte ai capricci del destino, sempre insondabile e imprevedibile. I temi della vita e della morte, del dolore e della gioia, di una natura benevola dispensatrice di gioie e onori e, nel contempo, impietosa nel ridurre tutto a un’ombra: “Un’ombra fredda è la tua vita / che se ne va leggera, si alza, si dissolve / nell’oscurità di un giorno nuovo.” In questo giocano un ruolo primario le vicissitudini private, che l’hanno costretto a confrontarsi con la realtà del dolore, della malattia, dell’incertezza del futuro.
Il tempo è materia pulsante delle riflessioni di Marino Masini che ne fa sostanza del visibile e del suo divenire attesa, annuncio, ricordo e presagio, ambivalenza dello sguardo lanciato sulle origini e inviato nelle proiezioni del non ancora accaduto. Non si tratta della dimensione di Chronos, quello che scorre sempre uguale a se stesso, uniforme nelle cadenze e nelle forme, ma quello interiore, vero motore della coscienza che ripercorre a ritroso il “già visto” e lo fa riemergere alla superficie di un presente pensoso e inquieto. Pertanto si innesta molte volte nell’energia della memoria che sprofonda nelle pieghe del passato, puntando la lente degli affetti su episodi, persone, luoghi e atmosfere che sono incisi nella pelle del vissuto e sul ritmo del vivente: l’acqua del fiume e del mare, la pioggia, il rumore dell’acqua sulla roccia, il vento “quando lo senti spingere verso la coscienza”, le rondini che ricamano il cielo di orbite
in volo e “porteranno la leggerezza dell’aria, della primavera che si lascia appena sfiorare”. Il poeta sa comunque estrarre sempre da un orizzonte buio e minaccioso una parvenza di luce capace di trasformarsi da un primo accenno a una compiuta speranza.
L’idea persistente di una finitudine è anche misura dell’infinito, come dire che l’esiguità del relativo mette in risalto la dilatazione massima dell’assoluto.
Momenti di afasia intensificano i moti della mente dentro lo spazio bianco della pausa, parentesi di silenzio in cui il pensiero si struttura poi nelle articolazioni del verso e nelle modulazioni del ritmo. E l’intonazione dialogica, il riferimento a un “tu” solo apparentemente generico, quasi a voler attirare l’interlocutore nell’area di una condivisione piena, è spunto consueto per una nota piena di sollecitante carica affettiva anche nello sguardo sul mondo, sulle dinamiche tra le persone, nella connessione con le creature del mondo fisico. I moti di tenerezza calibrano il dolce del sentimento segnando nel poeta la spinta a “uscire dal sé” per l’incontro con l’altro e gli servono anche come ideali punti d’osservazione del proprio stato più interno, in posizione lontana dal rischio di un coinvolgimento fuorviante.
“L’attesa è più feroce del momento, consuma, si sfama lentamente” è la conferma che il prima è talora più drammatico del dopo e che, in ogni caso, è carica di inquietudine la duplicità significante dell’attesa come stadio anticipatore della felicità o della disperazione.
“Raccolgo nelle tasche quel po’ d’ energia che rimane / Scendo cauto, ricordando di seminare le briciole di pane / per segnare il tragitto del ritorno, / per non perdermi in questo tempo / che sembra sempre più sbagliato.” Il che significa ritrarsi dentro una capsula di finta indifferenza per l’esistente, che invece sotto gli occhi del poeta mostra le sue cadenze, gli effetti metamorfici, il tratto illogico delle anime che lo popolano, le dinamiche che lo avvolgono sino a travolgerlo.
In questa silloge il dialetto è la forma colloquiale più vera che lo avvicina alla figura del nonno Toni, relegato in ospizio, “quel posto /dove se podeva solo spetar…” Qui è l’imminenza del trapasso a segnare il tempio dell’ansia scaturita dall’incertezza dell’immediato futuro.
Il ricordo ha declinazioni distanti dalla nostalgia vera e propria, intesa come tormento perché nato dall’impossibilità del ritorno a tempi e luoghi amati, anzi quel sentimento è divenuto il suo contrario: è come se le stagioni trascorse e gli spazi impressi nella mente tornassero continuamente verso di lui, a precisarsi in contorni nitidi e, quando questi svaporano nell’indistinto, è la volta della “visione”, che è ricostruzione del già visto secondo la sensibilità nuova dell’attualità.
La poesia di Roberto Marino Masini si dispiega lungo il tragitto di un viaggio dove le diverse tappe sono legate da un punto all’altro alla sua realtà biografica ma anche alla lente mitografica della fantasia, quella che consente di svincolarsi dalle regole gravitazionali e volare in assetto variabile verso approdi contigui a scenari di luce, accoglienti tanto quanto immateriale è la loro consistenza, vicina all’utopia. E la nostalgia, quando trapela nello sviluppo del testo, non ha
le parvenze del rimpianto perché la poesia sa neutralizzarla con l’evocazione di quanto indurrebbe a un ritorno; è per questo che le immagini, i gesti, i silenzi, le pause ricreano un movimento sottraendolo al passato e assegnandolo al presente.
La tristezza e la malinconia comunque sono le pulsazioni che fanno sentire un respiro via via sostenuto di fronte alle evidenze del vivere, ponendo il soggetto creante nella condizione di uscire dal rischio di farsi intrappolare dall’ansia di ciò che si è perduto, casomai dal desiderio di mantenere l’appartenenza mentale a ciò che, rispetto alla realtà sensibile, è entrato nella dimensione dell’assenza.
Enzo Santese