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Fu dunque un arcade il Meli?

Tutta la critica del Meli s’è aggirata intorno alla domanda: “Fu arcade il Meli o non fu arcade”? In Italia nel secolo XVIII dominava l’accade­mia dell’Arcadia, che postulava un rifugio ide­ale nell’omonima regione greca, nel suo mondo primitivo e pastorale, a base di canzonette e odi; e con quest’ac­cademia il Meli (Palermo, 1740-1815) dovette fare i conti. Da una parte ne imitò contenuti e stili, dall’altra andò al di là di essa, rivelando tendenze illumi­nistiche o addirittura realistiche. Non per nulla aveva fatto studi non solo letterari, ma anche filo­sofici, meditando sulle pagine del Rousseau e degli enciclopedisti e derivandone l’ideologia dell’u­guaglianza sociale, dell’innocenza primordiale e della spontaneità del dialetto.

Dopo tanti arcadi di professione, il Meli riuscì a conciliare il contenuto e la forma; la sua poesia è densa di fatti, di cose, di realtà sensibile e sentimentale. “I suoi pastori e le sue pastore, sebbene per un vezzo del tempo portino i nomi dell’antica bucolica, sono creature viven­ti che parlano, si muovono, lavorano, cantano, con nativa semplicità, con perfetta evidenza e naturalezza. Non sono, i primi, oziosi, sdolcinati e concettosi; né, le seconde, preziose e svenevo­li. Sono villani, che trattano la zappa e l’ara­tro, corrono dietro le capre per i dirupi a rischio di fiaccarsi il collo, attendono alla vendemmia, vanno ad attingere acqua alla fontana. Le fati­che della campagna sono vedute e rappresenta­te dal Meli con affetto e rispetto; il sentimento della vita campestre in lui fu così poco artifi­ciale che pare quasi il necessario prodotto del suo temperamento e delle condizioni in cui egli si trovò a vivere. Arcadia, codesta? O non pare piuttosto di sentirvi dentro come un odore aspro di naturalismo zoliano e un oscuro presentimen­to di rivolta sociale? Giovanni Meli ebbe vera­mente un suo ideale della vita rustica: lo sentì profondamente e lo rappresentò originalmente e potentemente. Egli si rifugia nell’adorazione della campagna per il rammarico lungamente represso dei suoi tempi e della sua condizione e vi nutre il desiderio della pace e la filosofia del rumores fuge di Orazio.

Malgrado fosse vissuto in mezzo all’Arcadia e gli argo­menti e i motivi di parecchie cose sue avesse derivato da quelli dell’Arcadia, Giovan­ni Meli non fu un arcade. “Come tutti i poeti del suo tempo, egli non poté sot­trarsi all’influsso della mito­logia, che era del resto una delle principali materie di insegnamento delle vecchie scuole. Romperla, aperta­mente, con la mitologia non poteva [e allora] fece di meglio: la volse in ridi­colo e vi riuscì. La sua lirica mantiene quasi sem­pre il carattere popolare, riuscendo [tuttavia] a nuovi e più graziosi motivi. Non vi è dubbio: il fondo di codesta lirica aveva costituito il gran­de laboratorio della poesia arcadica nel secolo XVIII, ma che vale? Il poeta codesto contenuto, vecchio quanto il mondo, ha saputo rinnovarlo, ridandogli freschezza di gioventù. Dov’è dunque l’Arcadia del Meli? Come si è potuto vedere nel Meli un arcade, quando, a chi legge bene e ne consideri l’opera multiforme, appare indiscuti­bile, limpida la nota di amaro umorismo e di dolore che era in fondo all’anima sua”.

Marco Scalabrino

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