Cinquant’anni fa, il 7 giugno 1970, moriva Edward Morgan Forster (Londra, 1879 – Coventry, 1970), voce critica garbata quanto necessaria nella Gran Bretagna post-vittoriana. La sua opera rappresenta ancor oggi l’esempio di una concezione della letteratura come mezzo di crescita civile e di invito alla comprensione reciproca, nonostante qualsiasi difficoltà. Ispiratrici in questo senso sono le riflessioni critiche contenute in Aspetti del romanzo (1927), che raccoglie una serie di lezioni tenute all’Università di Cambridge sull’anatomia della scrittura, sulla base di una poetica umanistica. Questa fra tutte: «L’espansione, ecco l’idea a cui i romanzieri debbono rifarsi: non la completezza. Non il chiudersi, ma l’aprirsi». Nei suoi romanzi – che videro numerose riduzioni cinematografiche tra gli anni Ottanta e i Novanta, ad opera di David Lean e di James Ivory – spiccano gli sprovveduti turisti bacchettoni di Camera con vista (1908), su cui lo scrittore riversa stille di humour dolceamaro. Li considera infatti come i primi automi omologati di quello che, decenni dopo, sarebbe divenuto il turismo di massa. Le loro vicende non sminuiscono tuttavia il valore della spontaneità dei sentimenti e della joie de vivre, di cui lo scrittore sottolinea l’essenza umana profonda – come nella vicenda d’amore di George e Lucy – e di cui avverte la nostalgia nei contesti più cupi. D. H. Lawrence aveva punzecchiato Forster, dicendo che egli “vede la gente, la gente e nient’altro che la gente, ad nauseam”: ma proprio questo è il dato più ragguardevole dei suoi scenari compositivi, Agli aspetti umoristici di cui sopra, Forster alterna un’intensa denuncia sociale, che colpisce la grettezza degli ambienti piccolo-borghesi ne Il viaggio più lungo (1907) e la sorda aridità classista in Casa Howard (1910). La crisi umana epocale del Novecento verrà rielaborata anni dopo dall’autore nel suo capolavoro, Passaggio in India. Uscito nel 1924, mentre la Gran Bretagna doveva confrontarsi nel subcontinente indiano con un crescendo di tensioni e di istanze indipendentistiche, quest’opera nasce da due esperienze personali in India (nella seconda delle quali, tra il 1921 e il 1922, egli era stato segretario personale di Sua Altezza il Maharaja di Dewas). Si riflette nel romanzo con lucidissimo acume la radicale diversità, spesso estraneità, tra la cultura britannica imperialista e quella indiana, intercorsa dalle secolari barriere che separavano indù e musulmani. I personaggi che animano la cittadina di Chandrapore – dalla benevola signora Moore a suo figlio, l’algido giudice Ronny Heaslop, dal sarcastico dottor Callendar al professor Fielding, educatore appassionato; nonché i due protagonisti indiani, il medico musulmano Aziz e il bramino Godbole – si muovono nella realtà franosa di una vicenda che non presenta vincitori. Falliscono in particolare i tentativi di amicizia oltre le diversità razziali, tra Aziz e Fielding, la signora Moore e Adela, promessa sposa di Ronny e arrivata col proposito dirompente e ingenuo di “conoscere la vera India”. La miccia esplode quando Adela, intellettuale spavalda quanto ingenua, accetta lo strampalato invito del medico Aziz a una gita con la signora Moore sui monti Marabar; lì si ferisce all’uscita di una grotta. Verrà coinvolta in un gigantesco caso giudiziario a sfondo razziale, dove Aziz verrà accusato di aver tentato violenza su di lei. Al processo, con onestà Adela lo farà assolvere, dichiarando di essere stata sovrastata da un’eco e di non essere certa dell’accaduto. L’India simboleggia qui il mistero: il continente altro e ignoto, la polarità non ancora raggiunta della conoscenza. È qui che la cultura occidentale – e storicamente quella britannica – hanno fallito. Quando Fielding saluterà Adela, di ritorno sola in Inghilterra dopo lo shock indiano, Forster dipingerà i due come “gnomi che si stringono la mano”: moderni lillipuziani sconfitti da un mistero ancora irraggiungibile.
Enrico Grandesso