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Un romanzo oltre i limiti della diversità

A distanza di cinque anni dall’attentato del 7 gennaio 2015, che a Parigi procurò la morte di dodici redattori del settimanale satirico “Charlie Hebdo” e il ferimento di altre undici persone per mano di un gruppo di terroristi islami­ci, un romanzo di recente pubblica­to in Italia ci aiu­ta a far luce sulla difficile e spesso drammatica real­tà delle banlieues parigine abitate in prevalenza da musulmani. È Fratello grande di Mahir Guven (euro 16,50, 256 pagine), vincitore nel 2018 del Premio Gon­court opera prima, pubblicato oggi in italiano dalle edizioni “e/o”. Nato apolide a Nantes nel 1986, da padre curdo e madre turca, Guven si trovò con questa situa­zione di partenza a dir poco sfavorevole a do­ver salire la scala dell’accettazione individuale e sociale in Francia. Analoghe alla sua, sono le vite zoppicanti dei due fratelli protagonisti del romanzo, figli di padre siriano comunista, orfani di madre e con una nonna bretone cattolica. Il maggiore di loro, dopo aver fallito nella carriera militare, diventa autista di Uber, compensando la frustrazione con la dipendenza dalla marijua­na; il più piccolo, soprannominato “Cerotto”, è infermiere. Attorno a loro un mondo di lavoro precario, malavita e spaccio, con la certezza di essere sradicati dall’universo d’origine – magre­bino per molti di loro, ma non per tutti – senza essere inclusi in quello europeo: il colore della pelle, la differenza di credo e tradizioni riman­gono limiti difficili da valicare.

“Per rigare dritti nella vita bisogna avere la colonna vertebrale bella solida. E a noi invece mancava qualche vertebra. Abbiamo compensa­to, ciascuno a modo suo”. Questa è la certezza esperienziale del fratello maggiore, mentre il più piccolo, animato da spirito altruista, si convince ben presto che la sua presenza e l’aiuto prezioso che può dare non debbano andare ai parigini e siano invece necessari nella terra di suo padre, la Siria, dove c’è la guerra. In quella terribile realtà di sofferenze e atrocità, dopo un anno si ritrova a gestire da solo un ospe­dale. Lì impatta quotidianamente con una real­tà ai confini dell’umano: “Ogni mattina andavo nella mia villa,

all’ospedale, dove mi aspettava il mio esercito di mutilati e di sfigurati. Era roba mia… qualunque cosa succeda, martiri o non martiri, la maggior parte della gente ha paura della morte. Tutti dubitano del dopo. A me in­vece è la vita che fa paura”. Cresce in lui, con l’abnegazione del dovere, il senso della distanza insormontabile tra l’Europa e la Siria, in parti­colare dopo gli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi: “Su internet vedevo che tutti scrivevano “Je suis Paris”. Poi ho aperto gli occhi e la vera realtà era davanti a me. Man mano che ricevevo degli innocenti all’ospedale e constatavo gli ef­fetti dei bombardamenti americani, delle grana­te di Bashar e degli attacchi russi, ci vedevo più chiaro. Il mondo avrebbe dovuto scrivere ‘Je suis Syrie’. Invece non gliene frega niente a nessuno, perché eravamo musulmani”. “Cerotto” ritornerà a Parigi, con la volontà di vendicare in un’azione esemplare questa palu­de di ingiustizia e alienazione; ma suo fratello lo scoprirà. Un finale al cardiopalmo andrà a con­cludere un romanzo che, guarnito con l’uso pun­tuale dell’argot franco-arabo in una narrazione a due voci complessa e inquieta, fornisce spunti quanto mai acuti per analizzare e comprendere il dramma di esistenze mai realizzate perché re­spinte.Enrico Grandesso

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