La circostanza di questa essenziale nota sull’opera di Nino De Vita trae origine dalla recente pubblicazione del volume in argomento (The poetry of Nino De Vita, a Bilingual Anthology – Sicilian/English – Translation into English Verse by Gaetano Cipolla, Edizioni LEGAS – U.S.A. 2014); ma le radici che la sorreggono sono invero più remote: l’intervista che lo stesso De Vita ebbe a rilasciare a Nino Calabrò, pubblicata sul numero del I febbraio 2000 del quindicinale di lettere e arte etneo Stilos. Dichiarava Nino De Vita: “Non mi restano più parole della mia parlata, le ho usate tutte. Non riesco più a immaginare un quarto libro”. Facciamo un passo indietro: “A trent’anni, improvvisamente, il mio registro di scrittura va verso il dialetto. Cercai e trovai nella mia memoria parole inusuali, modi di dire, ngiurie, nomignoli. Fu così che progettai, elencandole su un quaderno e inserendole in un tessuto narrativo, di salvare le parole che di più si erano logorate. Le parole del dialetto marsalese, o per meglio dire le parole che avevo imparato a conoscere e a raccogliere. Il progetto prevedeva la pubblicazione di tre volumi che contenessero, appunto, tutta intera questa lingua cutusiara. Due di questi sono già usciti: Cutusìu, pubblicato nel 1994, e Cùntura, pubblicato nel 1999. Lavoro adesso al terzo”. “Nino De Vita, poeta-conteur, – commenta dunque Nino Calabrò – come un ottocentesco demo-psicologo è andato alla ricerca delle parole desuete della sua parlata e ha creato un’arca non solo per salvarle ma per vivificarle con il calarle in un racconto”. Sergio D’Amaro allude all’“invenzione di un dialetto”, Salvatore Camilleri profila un pericolo al quale De Vita andrebbe incontro: “quello di non scrivere in siciliano ma in una presunta parlata marsalese per un pregiudizio di derivazione pseudo-verista”; Lucio Zinna rileva che, “lungi dall’essere la lingua siciliana della koinè, la sua appare piuttosto la trascrizione, quasi magnetofonica, del modo di esprimersi di altri “primitivi” in senso verghiano gravitanti nell’isola, non dalle parti di Acitrezza nel secolo XIX, bensì nello sperduto angolo di mondo che è la sua contrada [Cutusio di Marsala] e sul declinare del secolo XX”. Tanto premesso, e contrariamente al timore espresso in apertura, registriamo che Nino De Vita ha poi superato quella impasse. “Questa antologia di Nino De Vita – appunta Gaetano Cipolla nell’introduzione – contiene una selezione dai quattro volumi pubblicati dalla casa editrice “Mesogea” di Messina: Cutusìu, Cùntura, Nnòmura e Òmini. Malgrado il fatto che il poeta scriva le sue storie in versi (in genere settenari con rari endecasillabi) si tratta di racconti che potrebbero essere scritti in prosa: i personaggi che De Vita ha creato, con semplici colpi di pennello, balzano dalla pagina con una loro vita ben definita, dimostrando ancora una volta la sua maestria di cuntastorii. La poesia di Nino De Vita è [difatti] essenzialmente narrativa, un romanzo in versi, come egli stesso l’ha definita, che raffigura il mondo esterno e la gente che ci vive dentro. Dal bisogno di salvare il linguaggio del suo paese (come se volesse immunizzarlo dal logorio del tempo) nasce la cura straordinaria che egli si impone nella scelta delle parole, sempre perfettamente aderenti alle situazioni, sempre precise, mai generiche”. Appurato che la trasposizione italiana dei testi (in calce a ciascuna pagina) è dello stesso Nino De Vita, che è imperativo sottolineare la veridicità “storica” (certificata dall’autore nel corso di una nostra conversazione) dei racconti, non sono infrequenti, pur nell’acclarato ordito narrativo, ampi stralci di autentica liricità.