Nulla è più docile ed arrendevole dell’acqua e al tempo stesso nulla è più forte ed inarrestabile: essa, pur adattandosi ad ogni recipiente, quando scorre può essere devastante; essa disseta, ma può anche far annegare. Così, come lei, nell’esistenza umana tutto scorre e non si possono trattenere esperienze, persone, relazioni. Nell’affascinante ed enigmatico libro, Antropologia dell’acqua. Riflessioni sulla natura liquida del linguaggio, (Edizione italiana a cura di Antonella Anedda, Elisa Biagini, Emmanuela Tandello, Donzelli editore, 2010), a metà strada tra un saggio, un diario di viaggio e un testo sapienziale, Anne Carson, poetessa, saggista e traduttrice canadese, una delle voci più originali della letteratura in lingua inglese contemporanea, sviluppa le sue riflessioni intorno alla natura liquida del linguaggio. Il suo lavoro si sviluppa in tre capitoli: nel primo racconta del suo Cammino verso Compostela per reagire al dolore per la malattia del padre che, affetto da Alzheimer, ha perduto l’uso della parola. Il secondo, in cui scrive di un viaggio compiuto attraverso l’America con un uomo amato, è una riflessione sull’ incomunicabilità tra maschile e femminile, mentre il terzo è dedicato a un fratello lontano e al suo amore per il nuoto. In inglese il termine “fluency” designa la capacità di sapersi esprimere scorrevolmente, di saper padroneggiare una lingua con abilità. Cosa succede quando questa facoltà s’inceppa e la parola non riesce più ad essere pronunciata? È quanto accade al padre di Anne Carson ed è per lui che l’autrice decide di mettersi in cammino verso Compostela, lasciando fluire il fiume d’immagini che le vengono incontro e che si allontanano da lei. La prima che compare è quella di un cane annegato sbattuto tra le onde del fiume tempestoso che attraversa Saint Jean Pied de Port, metafora della perdita di controllo del linguaggio. Da lì inizia il Cammino di Anne, che insieme a un misterioso viandante risalirà il fiume d’immagini fino a giungere a Compostela. In questo pellegrinaggio, in cui il suo compagno le farà da specchio, ritroverà il senso del linguaggio. Nel secondo capitolo invece l’autrice esplora le aporie comunicative che si creano nel rapporto amoroso tra uomo e donna: dall’inizio, ricco di promesse, alla sua progressiva entropia, fino al definitivo commiato. La vicenda si svolge durante un viaggio “on the road” attraverso gli sterminati territori americani. L’ultimo capitolo è dedicato al fratello con il quale non è più in contatto: lo immagina impegnato nella sua passione prediletta, il nuoto. Il fratello nuota in acque che assumono una valenza mnestica, facendo affiorare in lui immagini, ricordi, paure e desideri. A casa del fratello c’è un gatto anziano, morente, che sparirà nella pioggia per poi tornare per un ultimo commiato. I due animali totemici del libro, il cane dell’inizio e il gatto della fine, adombrano l’immagine del distacco, di come sia doloroso congedarsi da presenze familiari, ma sottolineano anche l’importanza del lasciar andare, nell’impossibilità di trattenere ciò che nelle nostre vite ha esaurito il suo corso, la sua funzione. La scrittura di Anne Carson, scarna e immediata e al tempo stesso ricca di valenze simboliche a tratti ricorda la prosa asciutta e pulita di Paul Auster ed è in grado di immergersi nella solitudine della contemporaneità con sguardo nitido e consapevole. In realtà questo è un libro indefinibile che trascende ogni genere letterario per appellarsi alla parte più profonda del lettore, si tratta di un libro che dialoga con l’essenza della vita stessa e che rivela come l’acqua si configuri quale potente pharmakon, insieme veleno e medicina, nella sua duplice dimensione distruttrice e salvifica, rivelando il suo intimo legame con il linguaggio.
Lucia Guidorizzi