
Se concordassimo sulla definizione di fotografia come di un’arte spazio temporale in grado di preservare l’eternità di un istante allora, forse, potremmo convenire, circa la Mostra di Alexandra Mitakidis, su una sua doppia valenza conservativa. Non è un caso infatti se ho scelto lei, e queste sue fotografie, per conchiudere la prima tappa del museo della poesia, quella che si è dipanata fin qui nella sede di via Pace, a Piacenza. E quindi, ancor prima di addentrarmi in una poetica che fa degli incastri di luce la propria memorabilità, due brevissimi cenni su questa vicenda, giunta al tramonto del giorno, di quello che, ad oggi, rimane l’unico museo della poesia operante in Europa. Il museo che mi onoro di aver ideato è nato il 17 maggio 2014; fin dagli esordi, due le principali cifre distintive: una gestione affidata a poeti e artisti, e la caratterizzazione dinamica. Qualcuno al tempo parlò di un ossimoro (“ma come, mettere la poesia in vetrina?”), e invece proprio nella collocazione in bella mostra di libri, riviste e suggestione inerenti la poesia, sta quel concetto teorico performativo che oggi ci può far dire della assoluta dinamicità di questa realtà museale. Il museo della poesia, mi è capitato di dire, è tutto raccolto in quello spazio vitalizzante che intercorre tra la vetrina e il suo fruitore; starebbe esattamente lì, in quello spazio intangibile ma carico d’intenzionalità, il diaframma quasi colmato, (incolmabile fenditura?), tra verità e parola poetica. Ed è precisamente in quel volersi reciprocamente cercare la fruibilità di un’emozione echeggiante di luce e silenzio. Così, come accennato, la mostra di Alexandra è stata anche un commiato, o forse un arrivederci, per una storia, pur breve, di autentico vibrato poetico. Cinque anni ricchissimi di manifestazioni tutte caratterizzate per originalità, con alcune centinaia di poeti e artisti contemporanei intercettati, tra l’altro, in numerose città italiane. Ma dicevamo di questa mostra fotografica, Geometrie e incastri di luce, che ho voluto fortemente a conclusione di questo meraviglioso viaggio. Ciò che di stupefacente avverto nella fotografia di Alexandra, infatti, ha molto a che vedere con quel concetto teorico a cui ho brevemente fatto cenno, circa l’idea stessa di museo della poesia. Mitakidis, nelle sue opere, lavora alla ricerca di geometrie variabili, come di chi indaghi un ordine non scontato, il quale tenga assieme anche le contraddizioni; anzi che eventualmente dalle contraddizioni ricavi nuove possibilità e percorsi di vita. Spesso queste geometrie risultano accatastate, come memorie sovrapponibili che strato dopo strato costituiscono il corpo stesso di questa memoria, aggiungendo significati proprio da questa loro stratificazione. Ma sono i colori le chiavi di lettura più interessanti per cogliere appieno quella feconda contraddittorietà del suo strabiliante sentire artistico. Colori come filiformi conduttori relazionali, come possibili sintesi tra differenze apparentemente inconciliabili. Colori come brevi speranze, al limite estremo tra visionarietà e possibilità.
Massimo Silvotti