Conosco Massimo Silvotti da tanto tempo e con lui condivido il sogno e l’avventurosa conduzione del Piccolo Museo della Poesia di Piacenza, l’unico museo della poesia al mondo, nonché la più riuscita performance di questo brillante artista, poeta, scrittore, filosofo. Anni fa mi chiese di scrivere una prefazione in occasione della pubblicazione di un appassionante saggio filosofico lungamente meditato e rivisto, L’ulivo e il suo respiro. Ricerca sulla/della felicità (Puntoacapo edizioni, 2020).
All’epoca della sua revisione definitiva, come mi disse lo stesso Silvotti, fui determinante nel convincerlo a riprendere quel testo rimasto così tanto tempo nel cassetto e a dargli una forma definitiva per la sua pubblicazione. Di fatto l’ulivo pare un solido riferimento non solo nella sua scrittura ma anche nella vita, come attesta la presenza degli ulivi da lui piantati anni fa nei pressi di casa sua, di cui si occupa con amore. Dalla stesura di quel saggio (e certamente ancora prima), pur nella ungarettiana consapevolezza dell’impotenza della parola, l’ulivo è fonte di ispirazione anche per la titolazione della raccolta poetica Occorre che passi la luce tra i rami, pubblicata nel 2022, ancora nelle edizioni Puntoacapo, bussola di navigazione nella memoria di questi ultimi anni e, a tratti, darwiniana esperienza di osservazione della vita.
La silloge comprende 43 poesie, frutto di una selezione fra le innumerevoli composte tra il 2014 circa e il 2022, alcune delle quali pubblicate in precedenza su riviste letterarie come Milanocosa, Quaderni di arenaria, Atelier ma in seguito modificate in qualche dettaglio. Con una prefazione di Alessandro Rivali che lo fotografa sulle orme di due grandi Maestri del Novecento, Ungaretti e Giampiero Neri, caro amico mancato proprio in questi giorni, ed una postfazione di Alessandra Paganardi, curatrice della collana, che ne coglie tuttavia l’emancipazione dalla poesia novecentesca e la vivida originalità, la raccolta si divide in tre sezioni; nella prima “ la luce tra i rami”, le ultime e più recenti poesie, nella seconda “ le incolmabili fenditure” le più risalenti e nell’ultima “lockdown e dintorni”, come recita il titolo, tre poesie composte nel periodo della pandemia. È forte nei versi la matericità della parola “la poesia, mi disse/ dovresti sentirla coi polpastrelli/parole da sfiorare/come l’erba primaverile/o il dolore dei sassi/…”

Se nel saggio l’ulivo si elevava a metafora degli umani contorcimenti a cui il dolore conduce e al contempo resiste, nella tenace determinazione della realizzazione di una possibile felicità ora, la parola poetica può “curvare l’amore fino a renderlo / un gancio…” e rinsaldare la testimonianza di un coraggioso addentrarsi fra le pieghe e i “contorcimenti” dell’esistenza alla ricerca di un quasi montaliano varco, che permetta alla luce di insinuarsi tra le ombre dei rami per renderli più fecondi (e noi più felici).
Occorre che passi la luce tra i rami attraversa la vita, gli incontri, le esperienze, le gioie e la solitudine del poeta, offrendo squarci ed intuizioni che illuminano il mistero dell’umana condizione (“siamo come lampioni in un piazzale/di un centro commerciale/di notte, quasi soli”; “…più greve la finta libertà di una/rotonda; con tutto questo girare/e girare e girare”), senza rinunciare, con lucida ironia, a ridimensionare il dramma dell’esistenza. Scrive l’autore: “è solo una barchetta/di carta la vita, pensava, /non si doveva stare seri/di fronte a quel gioco che a sera/ si sarebbe concluso/…”.
Sabrina De Canio