Non sarà sempre così, ma nella stragrande maggioranza dei casi il bello in architettura è associabile e associato a grandi opere, mentre nella scrittura – e massimamente nella letteratura – un simile vincolo decade. Se è vero che possiamo trarre un altissimo godimento estetico dalla lettura di quegli splendidi ‘mattoni’ del Don Chisciotte della Mancia di Cervantes, di Guerra e pace di Tolstoj, di Moby Dick di Melville, giusto per citare un meraviglioso trio senza scomodare anche un Ariosto, un Dostoevskij o un Proust, non è infrequente imbattersi in libri piuttosto agili che sanno essere particolarmente preziosi per la nostra crescita culturale e “spirituale”. Il pensiero mi va, nello specifico, a quel così breve e così intenso König Bohusch, la prima delle Due storie praghesi che Rainer Maria Rilke ci ha donato nell’ultimo anno dell’Ottocento, consegnandoci tra l’altro questa perla: «ogni arte ha nostalgia di quel remoto giardino, della ricchezza di quei profumi e di quelle oscurità volendo dare la parola al suo fruscio. Il pretesto era costituito da due piccole storie. Lo scenario è Praga, questa città piena di strade buie e di cortili misteriosi. Gli abitanti, che di rado agiscono, sono trasognati e tristi; nelle loro voci c’è una nostalgia slava e vivono nella passata devozione dei loro intatti sentimenti». Che meraviglia!
E mentre ci attardiamo a riflettere su come, in effetti, anche l’arte, ogni arte abbia la propria nostalgia – e forse anche il proprio atavico desiderio – sogno di bellezza – proviamo a seguire la storia del protagonista, un “nanerottolo gobbo”, misero impiegato soprannominato appunto “Re Bohusch”. Un vecchio “dai pensieri lievi e dorati” e peraltro dall’esistenza vissuta sempre ai margini della stessa schiacciante burocrazia che, così a fondo e magistralmente, è stata scandagliata da un’altra penna magica come quella di Franz Kafka. Ancora Praga, una Praga «reale, con i nomi delle sue strade e delle sue piazze, con i suoi monumenti, il Vyschehrad, il Hradschin, le chiese e i teatri, i ritrovi e i locali, il National Café e la gente che lo affolla […], turbolenta e misteriosa, una Praga dipinta con tratti realistici eppure insieme gonfia, barocca, inquietante» (Alessandro Fambrini).
Una città magnetica nella sua inquietudine di fondo, insomma, con tutte le sue contraddizioni e le sue penombre, ma anche con i suoi sotterranei; con le sue viuzze infinite, con le mille storie e storielle che non fanno che moltiplicarla senza sosta davanti ai nostri occhi. Che sono quelli di noi visitatori, come pure di noi lettori. Poi c’è il giovane riservato, ma fosco, studente Rezek, irresistibilmente attratto da una misteriosa stanza dello scantinato di cui gli ha confidato l’amico impiegato e che egli immagina ben presto come sede ideale di riunioni anarchico-cospirative. Questa curiosità e questo interesse di Rezek fanno sentire Bohusch – a lungo battuto da tanti episodi di emarginazione – finalmente importante («anche io sono qualcuno»), cercato, in qualche modo atteso. Lo studente, del resto, prima gli aveva detto di essere consapevole che lui è brutto e subito dopo lo ha fatto sbottonare con tre parole: «Parlare rende belli». C’è insomma del grottesco, fatto emergere dal giovane Rilke con abile sarcasmo; c’è del grigio e ci sono toni cupi come pure ci sono sentimenti ambigui, ma forse soprattutto c’è un miracolo proprio della grande letteratura e, in senso lato, dell’estetico. Vale a dire quel miracolo in virtù del quale questa città, che con le sue “tenebre umide” strega e fa da sfondo alle azioni del povero Bohusch e dello scaltro Rezek, pur moltiplicata a dismisura, entra tutta quanta nelle pagine di questa breve e fascinosa storia praghese.
Giuseppe Moscati