Ho appena fatto incorniciare il manifesto del ‘Satyricon’ (1969) di Fellini (1920-1993) da sempre appeso nella mia stanza e riflettevo, sollecitata da Enzo Santese su Meneghello, sugli intellettuali attraverso cui si è espresso il Nordest ai tempi del suo, diciamo, splendore. Il manifesto raffigura il bellissimo Encolpio nella scena in cui tenta di congiungersi con una sacerdotessa del tempio di Malta, decontestualizzazione scenografica felliniana non presente nell’opera di Petronio. Non posso che confrontare il ‘Satyricon’ felliniano con il “Salò o le 120 giornate di Sodoma” (1975) di Pier Paolo Pasolini (1922-1975). Entrambi interpretano il loro tempo, uno trasponendolo tra gli arricchiti dell’antica Roma, l’altro nelle perversioni di una realtà immediatamente riconoscibile, storicamente scottante: veri e propri affreschi rispetto ai quadri del pur ineffabile ‘Signore e signori’ (1966) ambientato a Treviso del genovese Pietro Germi (1914 –1974).
Si trattava di scavare ‘dietro’. Tra gli anni ’60 e ’70 in Italia la psicanalisi svela che, accanto all’unica vita che si crede di vivere, ce n’è una segreta, c’è per ciascuno/a un demone che la religione non riesce più a tenere a freno. Ci penserà, appunto, la psicanalisi. Il cinema trova così uno spazio nuovo, l’interiorità senza tempo, in cui proiettarsi.
La visionarietà di Fellini, emiliano, protetto da un’unione matrimoniale di facciata, ebbe carta bianca sul panorama emotivo mondiale (censurato sì, a partire dalla “Dolce Vita”, salvata però da un cardinale Siri che giudicò la sua opera di assoluto valore morale in quanto radiografia del perbenismo cattolico). Non fu così per il friulano Pier Paolo Pasolini, vittima sacrificale della censura, contestato a destra e a manca per la funzione critica ininterrottamente esercitata, il che piaceva meno (Fellini non rivendicava posizioni ideologiche, agiva i propri fantasmi, arrivò a provare l’acido lisergico assistito dal suo psichiatra, conservavo un trafiletto a riguardo). PPP non lasciò sul lettino psicanalitico gli amori di strada che stridevano con la sua vocazione maternocristica: oltre che regista, era poeta purissimo tale da bere il calice della propria passione fino alla comminata morte nel fango, da lui prevista in poesia.
Con una seduta psicanalitica comincia “Chi lavora è perduto” (1963) del veneziano Tinto Brass (1933), uno spaccato di Venezia capitale del Nordest. Qui la zona oscura, l’Es nordestino, domina le scene attraverso il flusso del pensiero, il chiacchiericcio inesausto e banale tra sé e sé, alla Joyce, del protagonista Bonifacio. Il film, prodotto prima che Brass accettasse un posto da voyeur dietro al buco della serratura, ha tratti documentari e rari: segno che, a voler ‘criticare la società borghese’ si poteva anche non farsi distrarre dall’Es freudiano e non provocarne gli appetiti consumistici (contraddizione con cui PPP non mancò di confrontarsi).
La psicanalisi tenne invece a freno altri intellettuali che il Nordest ha eletto (o sta eleggendo ora?) a propria voce: il romanziere vicentino Luigi Meneghello (1922-2007) e il poeta trevigiano Andrea Zanzotto (1921-2011), quasi coprendo con la loro consuetudinaria normalità biografica, accademicamente ristretta, senza sbalzi, da studiare comunque, i contradditori inferni di un boom economico sgonfiato dalla Storia. Il primo, consumato il capitolo partigiano, con l’anima imprigionata dove la lingua evolve in una visione psicanalitica e morale più che politica, l’altro altrettanto ascritto alla Resistenza con raffinata straniazione e pregiata calligrafia misurata in punta di penna sui profili delle colline. E si dimentica il trevigiano Giuseppe Berto (1914 – 1978) che con “Il male oscuro” affondò la penna nel cuore della psicanalisi.
Poiché il Veneto, si sa, è pettegolo, da giovane lettrice fui raggiunta solo da notizie sulle loro nevrosi. I loro sostanziali silenzi davano una visione farmacologicamente sedata della regione in cui vivevamo. Timidi e borghesi, nulla ci dettero: manifestavamo con Whitman e Majakovskij in cartella, idealmente colloquiando con la fata verde di Baudelaire o al sole come bagnanti di Renoir a fianco di Rimbaud. Scrivevo senza punteggiatura come Kerouac. Eppure, io stessa non potrei tenere in casa un manifesto di ‘Salò’, drammaticamente prossimo venturo.
Antonella Barina