Una serie di tappe di un viaggio americano durato cinquant’anni e, almeno nel cuore, non ancora concluso: questo contiene La scoperta dell’America di Furio Colombo (Aragno, pag. 280), con la cui recensione completo e concludo la mia personale trilogia critica americana del Novecento per “Amicando Semper” – i precedenti articoli, sui viaggi americani di Alberto Moravia e su “Il grande Gatsby” di Scott Fitzgerald, sono usciti nei numeri di febbraio e di aprile. – La scoperta dell’America antologizza la testimonianza di alcuni momenti apicali della storia degli Stati Uniti, dagli anni Sessanta a fine secolo (l’assassinio a Dallas nel novembre 1963 del Presidente Kennedy, la rivolta delle “Pantere nere”, la crisi di Panama degli anni Settanta, fino a un’estensione al 2009 con il commosso ricordo di Ted Kennedy). Propone anche l’incontro con protagonisti della vita americana, non solo letteraria ed artistica bensì culturale nel senso più ampio. Ben riflettendo così l’intento di Alberto Sinigaglia che, dirigendo presso Aragno la collana “Classici del Giornalismo”, vi ha inserito questo volume come emblematico di quel giornalismo di approfondimento che è riflessione e scrittura, scandaglio degli avvenimenti, strumento fondamentale della loro conoscenza.
Annoverato oggi tra i decani della nostra cultura umanistica, Furio Colombo è stato un protagonista instancabile per oltre mezzo secolo delle vicende culturali in Italia e all’estero: per tutti, citiamo il suo lavoro alla RAI, la sua attività di fondatore, con Umberto Eco, del DAMS a Bologna nel 1970, la direzione dell’Istituto Italiano di Cultura a New York tra il 1991 e il 1994. Scorrendo l’indice del libro si manifesta subito al lettore l’amplissimo spettro di personalità con cui egli ha dialogato e che ha “ritratto” in contesti rilevanti per il loro impatto, politico o antropologico, sportivo o musicale, letterario, artistico o cinematografico: si va da Eleanor Roosevelt ad Arthur Schlesinger e Margaret Mead, da Muhammad Alì (Cassius Clay) a Joan Baez e Bob Dylan, da Andy Warhol e Woody Allen a Truman Capote, Norman Mailer, Arthur Miller e altri ancora.
Si compone qui un quadro degli Stati Uniti che riflette un paese in continuo divenire, frenetico e ricco di vitalità quanto sconquassato da tempeste e scossoni tutt’altro che tenui: la guerra in Vietnam, la crisi di Cuba dei primi anni Sessanta, le rivolte degli americani di colore. Uno dei capitoli più pregnanti è quello dedicato agli eredi politici di Martin Luther King. Colombo ha appena intervistato Andrew Young – pastore protestante, deputato democratico e successore nella leadership di King dopo il suo assassinio, nell’aprile 1968; addirittura papabile, nei primi anni Settanta, di diventare il futuro vicepresidente (il primo di colore!) del paese. I due passeggiano nella “zona negra (sic)” di Washington, così descritta: “Un fascio di luce punta sulla porta sverniciata di un cinema di periferia. La folla occupa il marciapiede e la strada. Ci sono ragazze da fumetto e famiglie stordite, appena arrivate da qualche paese del Sud. Ci sono giovanotti sospettosi che si muovono a disagio guardandosi intorno, con le mani cacciate
in fondo alle tasche. E teenager scatenati che saltano da tutte le parti, troppo nuovi e troppo giovani per immaginare che si possa mettere in discussione un loro diritto”. In questi articoli – tasselli di un mosaico a cui sono stati uniti alcuni brani italiani, tra gli altri su Schifano, Volponi, Arbasino e l’ultima intervista concessa proprio a lui da Pier Paolo Pasolini il primo novembre 1975, poco prima di venire barbaramente trucidato – Furio Colombo sa unire alla magnetica complessità dei dettagli, le rapide sottolineature di atmosfere, oggetti e aloni d’emozione: come nella percezione del calore avvolgente la vecchia casa dei Roosevelt, simbolo di un New England appartato e aristocratico dove erano stati ospitati Re Giorgio VI d’Inghilterra e Winston Churchill; nei ricordi dell’infanzia faticosa nell’inclemente Brooklyn di Arthur Miller; nel bastone portafortuna, impugnato a mo’ di scettro da Margaret Mead, l’antropologa ridente dietro gli occhi di ghiaccio. E nei versi di Lawrence Ferlinghetti, posti dall’autore ad epigrafe dell’introduzione: a contrassegnare un destino che l’avrebbe portato nella terra dove tutto succede prima o poi, drammatica e ancora vitale nuova frontiera dell’umanità.
Enrico Grandesso