C’è un parallelo tra la poesia e Venezia com’è in questi giorni. Su questo volevo riflettere quando stamattina, primo giorno del 2021 in zona rossa, sono partita da San Stae con in tasca il certificato che legittimava il mio varcare i confini per scrivere questo pezzo. Ero anche diretta al mare, piccolo rito con cui sono solita salutare l’anno nuovo e porre l’interrogativo dell’anno. Cerco di spiegarmi la misura diversa che avverto necessaria e auspico. Cominciamo dalla quantità, dalle presenze come indice di successo. Dato incontestabile? Eppure la città stava soffocando. Trent’anni a conteggiare i 50mila, i 150mila a Carnevale mi hanno vaccinato all’euforia dei numeri alti, della visibilità, della competizione, anche, tra le città d’arte. Il Covid ha costretto a rallentare, ha affinato i sensi storditi. Venezia si presenta splendida, come varrebbe la pena che chiunque potesse viverla. La vive così chi arriva in aerei che sono carri bestiame, o in autobus da trombosi per vedere due o tre cose nella ressa di un allevamento per poveri polli? La considerazione è antieconomica (per chi come noi vive di turismo), ma la risposta ovvia. E noi che viviamo di poesia, rimpiangiamo davvero l’accavallarsi, anzi, il sovrapporsi, di presentazioni, lo scorno per le limitate presenze che la poesia tuttora riserva ai suoi autori e alle sue autrici, il correre da una parte all’altra perché ‘se non ci vado, poi non viene alle mie presentazioni’? È questa la poesia?

(Foto Antonella Barina)
Ricordo che la gente si incontrava, parlava, beveva, faceva notti assieme per arrivare a percepirla nel silenzio di un campo. Ricordo quando era rara e prima di essere libro era vita. È vero: sono saltate presentazioni e il video non può sopperire, tuttavia il video ha scremato la comunicazione di servizio – è uscito il libro tale, stiamo organizzando una nuova iniziativa, grazie vengo anch’io oppure grazie, non posso: tante e utili le dirette, quelle del Pip-Pronto Intervento Poetico, quelle sugli Haiku, quelle per cominciare a costruire un ponte tra poesia e ingegneria, ecc. – dalla sostanza poetica che si è fatta più intima e raggiunge destinatari reali, interlocutori e interlocutrici appropriate, soprattutto ha ripreso a sanare. Questo penso mentre guardo dall’alto di Rialto l’acqua appena increspata dal vento e non sconvolta dai motori, avendo non solo il tempo, ma anche lo spazio per girarmi ad ammirare l’architettura d’apice del ponte dove un piccione cammina tranquillo, per quanto affamato. L’altro giorno ho aperto qui il cartoccio da asporto: ho dovuto dividerlo coi gabbiani che sono scesi ad affrontarmi di brutto, un boccone a me e uno a loro per tenerli impegnati. Quant’era che non facevo il gioco dei gabbiani? Incontro gli spazzini e una pattuglia. Mi affaccio con reverenza da sotto l’arco della torre a Piazza San Marco, godo la pienezza del suo vuoto mentre avverto la disperazione delle botteghe chiuse, ma ora ogni cosa è tornata quello che è.
La gondola riacquista la propria dimensione di sublime scultura, il moto ondoso dei lancioni turistici non la offende più, basteranno le mareggiate, le acque alte, gli tsunami. Lei è fatta così proprio per attraversarli. Torneranno a dormire in gondola i gondolieri in attesa dei viaggiatori, non più turisti? Siamo e saremo tutti più poveri, noi che non abbiamo ancora capito cosa è successo. Questo primo giorno dell’anno sembra il primo di un avvento epocale. Dal mare torno con una conchiglia bianca, una regina. Lo stesso colore che la pietra d’Istria dei ponti sembra aver riacquistato. La pietra però è la stessa, è lo sguardo che è cambiato. Così è anche per la poesia. Non basta più la semplice allitterazione o lo scarto di senso formale, c’è, appunto, bisogno di sostanza. C’è fame. Anche fame di poesia.
Antonella Barina