Home Cultura e Costume Nel ricordo di Adriano Olivetti: rassegna culturale a Rovereto

Nel ricordo di Adriano Olivetti: rassegna culturale a Rovereto

Una riflessione a più voci e a tutto tondo, a sessant’anni dalla scomparsa di Adriano Olivetti, (Ivrea, 1901 – Aigle, 1960): è stato questo lo spunto per l’ideazione di Industria Lavoro Letteratura, rassegna culturale orga­nizzata dall’Istituto Superiore “Fontana” di Rovereto, svoltasi in quattro tappe tra il 7 e il 28 ottobre.

Gli spunti ispirati dalla figura di Olivetti si sono ben presto ampliati alla tematica del­la letteratura industriale: “Ci siamo ripro­posti”, ci ha detto uno degli organizzatori, Alessandro Ceradini, “di analizzare una del­le stagioni più complesse della nostra lette­ratura del secondo dopoguerra: quella degli anni che hanno testimoniato il miracolo eco­nomico italiano”. Una stagione che ha ma­gnetizzato in Italia, tra gli anni Cinquanta e i Settanta, le energie creative di numerosi narratori e poeti – molti dei quali lavoravano in quell’ambito: da Paolo Volponi a Ottiero Ottieri, da Vittorio Sereni a Franco Fortini.

Nel primo incontro, Alessandro Cabianca ha sottolineato le innovazioni della fabbrica oli­vettiana, tra cui le vetrate, gli spazi più ampi, l’introduzione di una biblioteca: una vera e propria rivoluzione, nel tentativo di uma­nizzare sempre più le giornate degli operai in un luogo dove il dolore potesse riscattar­si. La visione umanista di Olivetti si dovette però scontrare, talvolta pesantemente, con la realtà: ne tratta Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri (1959) che riflette, sulla base dell’esperienza vissuta dall’autore, l’enor­me difficoltà di trapiantare un’industria al Sud, modificando ritmi, modi e abitudini dei contadini abituati all’uso della vanga e del­la zappa. Anche Paolo Volponi in Memoriale (1962) analizza la durezza e la ripetitività del lavoro industriale nella vicenda di un opera­io, Albino Saluggia, cronicamente malato e vittima di un complesso di persecuzione. E ben presto orfano dei suoi miraggi iniziali, in cui “la fabbrica era invece immobile come una chiesa o un tribunale, e si sentiva da fuo­ri che dentro, proprio come in una chiesa, in un dentro alto e vuoto, si svolgevano le fun­zioni di centinaia di lavori”.

Differente è la prospettiva di Primo Levi ne La chiave a stella, su cui ha relazionato Ni­cola De Cilia. Pubblicato nel 1978 (e vinci­tore, l’anno seguente, del Premio Strega), il romanzo ha come protagonista un montatore torinese, Faussone, che gira il mondo per la­voro, fra gru e tralicci. Cambiando radical­mente tematica rispetto ai suoi testi iniziali, Primo Levi – che nella vita gestiva una ditta di vernici chimiche – narra le esperienze di quello che oggi definiamo “una partita Iva”: l’opera di un tecnico, moderno detentore di un sapere esecutivo, che con il suo mestiere vissuto con orgoglio sa pensare con le mani.

Anche il cinema e la canzone d’autore si sono occupati della produzione industriale e del­le sue conseguenze. Nel terzo incontro si è svolta una carrellata che, partendo da Tempi

moderni (1936) di Charlie Chaplin ha messo a confronto film e canzoni statunitensi e ita­liani. Da Easy Rider (1969), manifesto hippy del rifiuto del capitalismo e dai brani di de­nuncia di Bruce Springsteen e Bob Dylan si è passati al confronto con lo scenario nostra­no, tra la Torino di Automobili di Lucio Dal­la, con testi di Roberto Roversi, e la cinica e malinconica Milano de La vita agra di Carlo Lizzani (1964, film tratto dal noto romanzo di Luciano Bianciardi).

Ha concluso la rassegna l’intervento di Giu­seppe Lupo, che ha esaminato gli scrittori e i poeti nel loro rapporto con l’industria. La critica di Elio Vittorini, che sosteneva che questi scrittori vedevano la fabbrica come i loro predecessori avevano un tempo visto la campagna, si è rivelata giusta: i nostri scrit­tori complessivamente non hanno capito a fondo quest’universo, manifestando bensì l’atteggiamento di chi non ha saputo affron­tare la modernità degli impianti e delle mac­chine. Respingendo così un confronto più autentico con questa necessaria realtà.

Enrico Grandesso

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