Tra gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo ci fu una felice, irripetibile congiuntura, un momento di grazia e di bellezza in cui sembrò possibile abitare quella che Henry Corbin chiamava la Terra d’Hurqalya o Paese del Non Dove, luogo di realtà epifanica, nel quale si corporizzano gli spiriti e si spiritualizzano i corpi: in questo mondo intermedio in cui si congiungono visibile ed invisibile, tutto è possibile. In quegli anni l’Italia, uscita da due conflitti mondiali, era un paese desideroso di benessere e di quiete borghese, ma le sue certezze furono spazzate via da una generazione di agguerriti sperimentatori che preferirono vivere a pane e pomodori pur di riuscire a vedere
Dio in faccia. Questi giovani scelsero le vie impervie della ricerca spirituale, sperimentando nel proprio corpo estasi psichedeliche, vivendo esperienze che li indussero ad abbandonare la Vecchia Europa dai “parapetti antichi” per viaggiare in Oriente, in Messico e nel Nord Africa. Il loro scopo era di varcare le “porte della percezione”, di espandere la coscienza, abbandonando come fa la serpe, la pelle della vecchia e grigia identità in cui erano rimasti soffocati i loro padri. Questo oltrepassare confini, per vivere appieno la gioia dei pluriversi e della molteplicità divina, purtroppo non durò a lungo e in breve fu soffocata da derive ideologiche, dalla lotta armata e dalla diffusione dell’eroina. Tutto questo determinò una rimozione e cancellazione di una stagione intensa e unica per quanto breve. Gianni De Martino, autore di questo prezioso libro che racconta modi di vivere impensabili al giorno d’oggi, è giornalista, scrittore e critico letterario. Cofondatore di “Mondo Beat”, ha diretto “Mandala. Quaderni d’Oriente ed Occidente” e collaborato con “Pianeta fresco”, “Alfabeta” e “Re Nudo”. La sua presenza nel mondo della psichedelia italiana è stata fondamentale. Il libro “Voglio vedere dio in faccia.
Frammenti della prima controcultura”, a cura di Tobia d’Onofrio (Agenzia X, Novembre 2019), costituito da una raccolta di vari articoli e interviste dell’autore a personaggi basilari per la controcultura quali il Dalai Lama, Albert Hofmann, Georges Lapassade, Fernanda Pivano e altri, solleva questa cappa di silenzio e offre una serie di testimonianze, ricongiungendo le “disjecta membra” di esperienze che hanno segnato un’epoca. Leggendolo, si comprende veramente cosa abbia significato spingersi ai limiti estremi e si coglie il background culturale e spirituale complesso e articolato che stava dietro la facciata apparentemente pittoresca di una generazione “beata”. In realtà si trattava di ricercatori animati da un’autentica sete di assoluto, capaci di immergersi in esperienze estatiche e di frantumarsi nel caos magmatico della vita stessa.
In tutto questo c’era una purezza adamantina d’intenti, una grande inclinazione visionaria e la capacità di far dialogare tra loro intelletto, spirito ed anima. Si trattava degli eredi di Ibn’Arabi, Arthur Rimbaud, Ernst Jünger, dei seguaci del Buddismo Zen, degli Ultimi Americani, ma anche di Julian Beck e Michel Foucault. In quegli anni per la prima volta si comprese che Oriente ed Occidente potevano incontrarsi proprio come la confluenza tra i due Mari, metafora cara al sufismo. Il libro è ricco di testimonianze e dettagliato nell’analisi del sorgere della controcultura beat ed hippie. Gianni De Martino analizza con lucidità e al tempo stesso con sottile umorismo questo fenomeno dalla portata poetica e profetica, rendendo così giustizia a un periodo dimenticato, che però continua carsicamente a operare, diramandosi in molteplici direzioni e che forse un giorno verrà compreso in tutta la sua “zoppia divina”, derivante dalla lotta con l’Angelo del linguaggio.
Lucia Guidorizzi