
GILBERT & GEORGE, Ridley road, cm 254 x 337, tecnica mista, 2013
Parlare di Gilbert Prousch (San Martino in Badia, 1943) e George Passmore (Plymouth, 1942), meglio conosciuti come Gilbert & George, significa affrontare un delicato tema: il rapporto tra arte e società. I due artisti che ormai costituiscono un sodalizio nella vita e nel lavoro hanno scelto sin dall’inizio una via diversa e originale per esprimere la propria concezione dell’arte, un pensiero condensato nella frase Art for all (Arte per tutti). Non si tratta di una teoria democratica e populista sulla fruizione del prodotto creativo, quanto piuttosto del rifiuto dell’idea di un’arte esterna al mondo e della certezza che essa è vita e quindi la vita stessa non può che essere arte, anche nelle sue più sgradevoli sfaccettature.
Di qui un progressivo protagonismo che porta i due ad essere icone costanti del loro lavoro, in una totale disponibilità a metterne a nudo limiti e difetti, facendo coincidere nella proposta artistica la vita stessa e, contestualmente, una sua irriverente ma non ipocrita denuncia. La loro posizione ideologica è rintracciabile già nella loro prima opera George the Cunt e Gilbert the Shit il cui titolo è legato alle lettere che i due artisti hanno appuntato sui loro vestiti. George e Gilbert ripresi a mezzo busto sono in due fotogrammi divisi ma affiancati. La loro espressione è divertita, arrogante, tesa a dissacrare l’arte e le sue creazioni, a fare della propria persona il soggetto oggetto delle proprie opere, come rifiuto ultimo dell’opera d’arte feticcio, del totem sacro da riverire e onorare.
Logico quindi il passaggio alle “Sculture viventi”, performance artistiche continue che non sono fuori dalla realtà, ma la realtà stessa, non una interpretazione della vita ma la vita stessa. Il microcosmo del loro vissuto e quello del quartiere londinese in cui abitano si dilatano fino a diventare paradigma di un universo sociale che non può essere accettato supinamente.
Si tratta dunque di un’arte concettuale, minimalista, che parte dalla fotografia e dal video per giungere spesso a una tridimensionale rappresentazione di sé come testimonial di una cultura consumistica e spersonalizzata, di un mondo che si trasforma in modo sempre meno comprensibile. Tanti sono i temi sociali entrati progressivamente nelle loro opere, la vita misera degli ultimi (Underneath the Arches, 1970, i motivi religiosi (Dying Youth, 1970), la natura (The General Jungle or Carrying on Sculpting, 1971), la malinconia depressiva (Dusty Corners, 1975), la città (Dirty Words Pictures, 1977), l’alienazione (Red Morning, 1977), la riflessione sull’universo (The Cosmological Pictures, 1989), l’Aids, la provocazione di The Naked Shit Pictures, 1995 (Immagini di nuda merda), di New Horny Pictures, 2001 (Nuove immagini di sesso), la violenza terroristica (The Six Bomb Pictures, 2006) e tanti altri ancora. Un’arte morale la loro? A taluni, specialmente di fronte ad immagini che vedono Gilbert e George alludere ad atti sessuali o insistere su escrementi e fluidi corporali, sembra piuttosto irriverente, dissacrante, volgarmente polemica, eppure la traduzione in arte della vita non può tacere sui lati più oscuri e degenerati delle fragilità umane.
E i due artisti non si limitano ad accennare a quelle debolezze che preferiamo nascondere, oppure a quelle fisiologie impoetiche del nostro corpo, ma le assumono come voci forti sia per ricordarci i nostri limiti sia per lanciare accuse a un perbenismo di facciata. Nel 1961 Piero Manzoni aveva sigillato 90 barattoli, con un’etichetta in più lingue con la scritta «Merda d’artista”, ma Gilbert e George portano gli escrementi in vista, ne fanno montagne tridimensionali e si pongono accanto per rivendicarne il legame e il possesso e, nello stesso tempo, ricordare alla società la sua anima meno nobile. Insomma Gilbert e George, che hanno firmato tutte le loro opere con questo binomio, sono artisti trasgressivi ma testimoni significativi del loro tempo, di cui hanno fatto la narrazione attraverso performance e foto, disegni e sculture, ora presentandosi in giacca e cravatta ora ostentando una cruda nudità, raccontando tutto, senza tacere nulla.
Mario Giannatiempo