Home Arte Folisca, un femminicidio nella Belle Époque

Folisca, un femminicidio nella Belle Époque

È un romanzo coraggioso, che unendo un’in­calzante dolcezza narrativa all’originalità di un’ampia orchestrazione dei punti di vista e dei sottesi retroterra psicologici e ambientali, conduce il lettore alla fioritura e all’espiazione fatale di un desiderio di bellezza che sta per spiccare il volo.

Parliamo di Folisca di Miriam D’Ambrosio (Arkadia), che narra la storia del­la sciantosa milanese Rosetta Andrezzi, in arte Rosetta de Waltery. Ultima figlia di una fami­glia poverissima della Milano di fine Ottocento, la protagonista fu costretta da giovanissima a concedere le sue grazie per sopravvivere; ma il suo primo amante, innamorato di lei, le pagò gli studi musicali e la giovane, volonterosa e dotata nel canto, iniziò ad affermarsi nello spettacolo, fino a intravvedere gli inizi di una carriera nel mondo del teatro lirico.

Un tra­guardo ambito e inimmaginabile, che sarebbe stato per la giovanissima sciantosa il modo di riscattare la miseria e le violenze del passato. L’incanto e l’innocenza dei suoi sogni verranno tuttavia spezzati a soli diciott’anni, nel 1913, da una mano mortale. Un evento annunciato, scandito come il battito di un metronomo: un crimine su cui indagherà l’“Avanti!” dell’epo­ca, ma che verrà poi, in breve tempo, messo definitivamente a tacere.

La vicenda divenne una canzone storica del­la ligera (la mala milanese), interpretata negli anni anche da Nanni Svampa e da Milly; e ver­rà ripresa da Leonardo Sciascia in uno scritto del 1983, Miriam D’Ambrosio la romanza, in­serendola nelle atmosfere e nei colori della Bel­le Époque milanese, che Rosetta inizia a vivere e a sentire propria grazie alla sua volontà dolce e tenace di calcare le scene. Il romanzo fa turbi­nare con effervescente delicatezza la Milano di allora: dagli usi di quegli anni (il “blu di Per­sia”, ad esempio, colore imperante nella moda) alle luci cittadine; dai mattini chiari agli odori e alle atmosfere notturne, a cui si mescolano le molte riflessioni della ragazza – tra tutte: “la bellezza della memoria non muore con noi, re­sta”; “il lusso non mi affascinava, la bellezza sì: ho sempre pensato che c’è una grande dif­ferenza”.

Scritturata in breve tempo per esibirsi in piazze di prim’ordine quali Roma, Napoli e Genova, Rosetta è carica di fremiti e di speranze, uniti nell’incanto con cui vive le sue prime esperien­ze sul palcoscenico. La musica e il sofferente universo delle sue origini sono le due polarità che palpitano dentro di lei: sono anche il so­gno di un animo tenero, che coglie e apprezza

ogni sfumatura luminosa del nuovo mondo che la vita le porge. Nomen omen del suo fulmineo passaggio sulle scene è il vezzeggiativo Folisca, che nel dialetto feltrino-bellunese di un suo amico del cuore significa Scintilla.

La narrazione in prima persona scandaglia in profondità, nel romanzo di D’Ambrosio, i pas­saggi psicologici e di crescita di Rosetta. La scrittura si interfaccia con un raffinato disegno stilistico che intreccia alla soave voce femminile quelle dei differenti protagonisti maschili della vicenda, in un mirabolante gioco a tutto ton­do psicologicamente denso quanto presentato con una scrittura che scorre in leggerezza i nu­merosi passaggi del testimone narrante.

Con le susseguenti mutazioni degli angoli visuali e dei destini, nella radicalità dei desideri incompiuti: si va da uno dei fratelli maggiori al suo primo amante e mecenate; dall’amico d’infanzia, fini­to ben presto in gattabuia, allo speranzoso in­namorato platonico. Fino all’apparizione della voce sciagurata del suo assassino, prigioniero di una concezione della vita imbevuta d’odio e della necessità di affermazione della violenza, a scapito della vita e di ogni concezione di bellez­za e di giustizia.

Enrico Grandesso

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