Una mostra ospitata a Trieste dal 25 marzo al 30 aprile del 2023 analizzerà l’influenza che la cultura africana ha avuto sull’arte figurativa del novecento, le contaminazioni riconoscibili in tante opere di grandi artisti del periodo. Come mai un’arte povera e semplice come quella africana ha potuto contaminare una creatività così evoluta come quella europea e americana? La risposta è semplice: per un’esigenza ineludibile di rinnovamento, una provocatoria dissacrazione del passato.

Quando all’inizio del secolo scorso diventano ingestibili i grandi contrasti sociali ed economici e la borghesia mostra una profonda involuzione indirizzata verso il profitto, nasce per reazione un rifiuto della cultura borghese dominante, una rivoluzione tesa a cancellare quanto di accademico, istituzionale, e dunque falso e retorico sopravvive in un’arte autocelebrativa. Il rinnovamento abbraccia tutta la cultura del primo novecento tesa alla ricerca di una semplicità autentica, una sacralità della forma che non ubbidisca più a canoni anacronistici, ma nello specifico l’arte comincia a guardare con curiosità e nuovo rispetto sia al passato lontano, a quella espressività ingenua delle culture primitive, sia a un presente artistico meno evoluto e pertanto più genuino come quello del mondo culturale africano, mantenendo a lungo, fino ai nostri giorni, un interessante rapporto dialettico.
La mostra di Trieste, ospitata al Magazzino 26, propone una serie notevole di opere d’artisti che si sono ispirati a forme iconografiche africane: Matisse, Picasso, Magritte, Modigliani, Calder, Basquiat, Braque, Dalì e tanti altri ancora; ma che cosa hanno copiato e con quale effetto l’arte moderna e quella contemporanea? E che cosa hanno lasciato in quanto intraducibile e non trasferibile? Partiamo dal rapporto tra il cubismo e l’antropomorfismo alterato della maschera o della scultura in legno di diversi paesi africani. L’arte europea cercava un modo per scomporre e destrutturare la figura e ha visto nella rappresentazione innaturale della creatività dell’Africa nera una possibile espressività alternativa e liberatoria. Ma ciò che ha copiato ha preso una nuova vita, ha assunto valenze simboliche del tutto estranee ai valori originali. Picasso, in generale, quando si ispira alle maschere del continente nero, ne assume le alterazioni fisiognomiche per rappresentare una figura umana fragile e problematica, ignorandone volutamente la natura fortemente religiosa, la valenza tribale, totemica e quindi simbolica. La contaminazione è sicuramente un processo di arricchimento, di rivitalizzazione, di ripresa e rinascita, ma ogni passaggio da una cultura all’altra rischia di compromettere lo spirito originario di quanto è stato importato. La cultura africana delle origini aveva una dimensione interiore sconosciuta ai paesi industrializzati, non sentiva il bisogno di firme, perché non era mai appartenuta al singolo. Aveva un alto coefficiente di magia, di superstizione, di spiritualità, non si realizzava come gesto artistico liberatorio, quanto piuttosto propiziatorio sia per la vita che per la morte. Gli artisti moderni che ne hanno subito l’influenza hanno usato i prestiti adattandoli a una rilettura meno
interiore, più estetica. I visi e i colli allungati di Modigliani sono sicuramente influenzati dall’iconografia del terzo mondo, ma esprimono una malinconica enigmaticità, estranea alla cultura di quei paesi. Il Poster per commedianti di Paul Klee del 1938 ricalca i disegni mangbetu del Congo, ma rilegge in una nuova ridistribuzione dello spazio e del segno quella che voleva essere solo una ingenua rappresentazione di attività e movimenti quotidiani. Anton Pavsner ripropone motivi delle maschere della Costa d’Avorio in audaci volumetrie tridimensionali, e il famoso fotografo Man Ray sente il bisogno di inserire in foto dedicate alla moda elementi della cultura congolese come in Femme e Mode au Congo 1937. Basquiat, contamina le maschere con i cromatismi della street art. Insomma l’Africa ha influenzato l’arte del novecento, ma è stata riletta e adattata. E oggi? Siamo in un mondo del tutto diverso. Se ieri si poteva parlare di una cultura africana, oggi è doveroso parlare di un’arte più matura che ha nomi e cognomi da proporre al mercato di collezionisti e appassionati come Chéri Samba (Congo), Ben Enwonwu (Nigeria), El Anatsui (Ghana), Marlene Dumas (Sud Africa), Gérard Sekoto (Sud Africa), Njideka Akunyili Crosby (Nigeria), Julie Mehretu (Etiopia), Chéri Cherin (Congo), Ibrahim Mahama (Ghana), Amoako Boafo (Ghana), per citare solo i più conosciuti. Rimangono riconoscibili alcuni elementi della cultura di origine; sicuramente il confronto interculturale ha dato alla creatività africana un linguaggio più complesso e moderno ma il dialogo è diventato meno magico.
Mario Giannatiempo