Il Palazzo dei Papi e la Collezione Lambert hanno ospitato ad Avignone Tigres et vautours (Tigri e avvoltoi), una interessantissima mostra dedicata a Yan Pei- Ming, artista cinese diventato famoso per una pittura che racconta i fatti e i personaggi della storia attraverso emozioni, sensazioni, una rilettura ora poetica ora etica che, pur risultando critica, non è mai politica o ideologica.
Nato a Shangai nel 1960, dopo aver cercato vanamente di entrare nella Scuola d’Arte e Design della città, nel 1980 emigra in Francia diplomandosi all’ École de Beaux- Arts di Dijon. In seguito comincia subito a farsi notare e la sua prima mostra personale è del 1991, al Centre Pompidou di Parigi, per la quale ottiene un riconoscimento internazionale. Nel 2003 espone alla Biennale di Venezia, passando poi di successo in successo. La pittura di Ming – così viene comunemente conosciuto – poggia su alcune linee fondamentali che sono la cifra della sua ricerca: un monumentalismo epico, un espressionismo moderno, una sensibilità in bilico tra oriente e occidente, un cromatismo scarno, il ritratto del singolo come specchio di una tragedia comune, un uso pittorico del fotogramma.
Il gigantismo dei suoi ritratti, dipinti solitamente in verticale, grazie ad un braccio elevatore, con pennellate grandi e dense, ha più rimandi interpretativi: da una parte sottolinea l’importanza dei personaggi dipinti, che hanno fatto la storia collettiva o personale e la rappresentano con una presenza imponente. Dall’altra vogliono esprimere il livello sociale di attesa, di speranza, di delusione, di responsabilità e di colpa, in cui si intrecciano il singolo e la collettività, oppure humanitas e ferinitas, il male e il bene. Perciò le sue opere non sono naturalistiche ma si muovono tra un espressionismo al limite del caricaturale e una trasfigurazione lirica, in cui l’“io del personaggio incontra quello della comunità di appartenenza”. Senza chiamare in causa anche i continui rife
rimenti a una Cina reale (Bruce Lee, Mao, la figura paterna) che ricordano non solo un immaginario personale dell’artista ma anche sociale, questa lettura etica chiama in causa la cultura di origine, quel mondo spirituale non ancora seppellito dalla tecnologia, dall’industrializzazione; potremmo parlare della sua ritrattistica come di una costante ricerca del Tao, il flusso della vita, che sovrintende all’ordine della natura. Ma la vita è anche dolore, tragedia e forse questo spiega l’uso così ridotto del colore: una prevalenza del grigio e nero, con pochi ricorsi al rosso e all’azzurro. Inoltre le pennellate larghe, ora dense, ora trasparenti, lasciano vedere e non vedere, come attraverso un velo, come uno specchio vecchio e polveroso. Forse il filtro della memoria o dell’anima. La scelta di Ming di ritrarre i personaggi della storia e del mito, della famiglia e della società, nulla ha a che fare con la grande tradizione ritrattistica che dal cinquecento arriva fino al novecento, ma punta piuttosto a ricordare che la storia passata e presente può e deve essere letta attraverso i suoi eroi positivi e negativi e che in essi è comunque sottintesa una umanità, una massa che seppure anonima, soffre e spera in modo reale.
Verrebbe quasi da dire che le opere di Ming sono fotogrammi che fissano solo per pochi secondi il flusso ininterrotto del divenire. Una fotografia poetica, che interpreta e documenta tensioni, pulsioni, emozioni più che descrivere e rappresentare cose e persone, sia quando inquadra il singolo che quando si rivolge a gruppi sociali, sia che inquadri persone o animali. La sua ultima mostra, dedicata alla pandemia, trova un’efficacissima lettura di questa tragedia nelle mascherine che nascondono i volti, nelle tute bianche che coprono i corpi, forse il nuovo look del terzo millennio.
Mario Giannatiempo