Home Arte L’arte di Lawrence Carroll, tra fisicità e pensiero.

L’arte di Lawrence Carroll, tra fisicità e pensiero.

La mostra di Lawrence Carroll ospitata a Na­poli dal 25 marzo al 5 settembre, a tre anni dalla sua scomparsa avvenuta a Colonia nel 2019, è una retrospettiva che attraverso 80 opere, vuole dare una complessiva possibilità di lettura e conoscenza di un artista che anco­ra oggi rimane una figura eccentrica rispetto ai grandi movimenti artistici del novecento.

LAWRENCE CARROLL, Senza titolo (particolare), cm 52 x 40 x 1, olio, cera e tela su legno, 2006-2007

La sua ricerca artistica infatti è rimasta isola­ta, un percorso individuale, incentrato su due particolari concetti fondanti: una contiguità tra pittura e scultura, un ruolo scultoreo della tela. Sembrano due elementi sovrapponibili, ma coniugati separatamente hanno permesso a Carroll di realizzare quelle opere diverse e originali che lo hanno reso un’icona dell’ar­te contemporanea. Era nato a Melbourne nel 1954, ma dopo pochi anni la sua famiglia si era trasferita negli Usa dove aveva fatto tut­to il percorso di studi. Il suo avvicinamento all’arte non era stato immediato, anzi per molti anni aveva lavorato come illustrato­re per necessità, visto che a 22 anni era già sposato con figli.

Ma non aveva mai smesso di sperimentare, inseguendo un impulso creativo sempre attivo anche se non ancora maturo e consapevole. Poi improvvisamente, dopo tan­te notti trascorse ad alimentare questo fuoco interiore, aveva sentito in modo forte e chiaro che la sua strada era l’arte, che voleva essere un artista e vivere realizzandosi in questa pro­fessione. Una folgorazione tardiva? Può sem­brarlo visto che la sua prima mostra arriva solo nel 1988, quando cioè il giovane ha già 34 anni. Ma già nella mostra dell’anno succes­sivo in Europa ad Amburgo, seppure insieme ad altri sette artisti, Lawrence riesce a distin­guersi avviandosi verso il successo degli anni successivi. Sicuramente le difficili esperienze di una infanzia povera, le abitudini familia­ri al risparmio, alla conservazione di quanto poteva essere riutilizzato, hanno avuto un’in­fluenza decisiva nel modo con il quale l’artista realizza le sue opere.

Sin dall’inizio le sue tele sanno di recupero, sembrano già usate, rovi­nate e rimesse a posto in un modo che però non riesce a nascondere i danni passati (l’ar­tista ricorda spesso come anche mentre era illustratore recuperava le tele buttate dagli studenti per riutilizzarle). Ma c’è del poetico anche nella povertà dei mezzi pittorici, nella penuria di colori, nel riutilizzo di oggetti, se si guarda al mondo leggendolo con il cuore, sen­za condizionamenti o pregiudizi, sentendolo lirico e autentico anche nella semplicità. Ed è questa prospettiva a guidare la ricerca dell’ar­tista australiano, ad alimentare quella speri­mentazione che porta alle “scatole dipinte”, alle tele bianche, alle sleep paintings e infine alle frozen paintings. In questa successione di nuovi stadi creativi Carrol sperimenta le capa­cità pittoriche delle superfici tridimensionali, le potenzialità espressive di cromatismi poveri nei pigmenti ma ricchi di riferimenti allusi­vi e simbolici, infine la vitalità della materia che sembra avere un’anima e intelligenza. In quest’ottica le opere diventano corpi nello spazio, forme che chiedono posto e collocazio­ni dinamiche, ma individuali, rivendicando anche il diritto/dovere al cambiamento, una mutazione che già esiste in natura e che l’ar­te non deve negare.

Vale la pena di ricorda­re alcuni pensieri espressi da Carroll durante un’intervista concessa ad Emanuela Burgaz­zoli nel 2016: “l’idea di un’arte universale che possa mettere d’accordo tutti non è il mio sco­po. Non voglio che i miei quadri vivano solo nella testa di qualcuno. Vorrei che fosse anche un’esperienza fisica”. Dunque la fisicità è ciò che deve innanzitutto colpire lo spettatore, in­vitato a toccare, a sentire la materia del colo­re, della tela, degli oggetti entrati a far parte dell’opera.

Essa è un’esplorazione, un viaggio, nella realtà e nella fantasia, nel mondo este­riore e in quello interiore. In un’altra occasio­ne, presente nel film-documentario di Simona Ostinelli (2019) Finding a place, l’artista dice testualmente: “Quando realizzi un dipinto, se­condo me, non sai mai dove andrà a finire, non sai mai chi ci troverà qualcosa…la pittura è un luogo. Dipingendo cerchi di trovare un luogo. Come puoi immaginarlo nei dettagli, prima di arrivarci?”. La pittura è intesa, dun­que, come esplorazione che indaga gli spazi del monocromo appena sporcato o contami­nato dal grigio e dall’ocra, la tridimensiona­lità solida del colore, la fisicità del pensiero.

Questo artista è stato un nomade nella vita e nell’arte, avvicinandosi ed allontanandosi da­gli altri viaggiatori come è giusto e logico che avvenga. Si è sentito molto vicino a Morandi per il tipo di vissuto, per la ricerca e la spe­rimentazione dei materiali, ma ha comunque seguito un percorso personalissimo che non manca di stupire addetti ai lavori e visitatori occasionali. La mostra al Madre di Napoli è anch’essa un viaggio nell’arte di Carroll, ne ri­percorre i passi, fermandosi di più dove occor­re, come nella riproposta dei lavori che erano stati esposti dall’artista alla 55ma Biennale di Venezia del 2013, dove nel padiglione della Santa Sede aveva proposto una personalissi­ma rivisitazione della Genesi, la Ri-Creazione, ri-portando in vita e ri-generando materiali inerti e logorati. La mostra di Napoli curata da Gianfranco Maraniello non mancherà di stupire il visitatore, poiché vuole rendere per­cepibile, e vi riesce, il sentimento che Carroll ha sempre avuto del mondo: una sovrapposi­zione di tracce passate e presenti, un unicum di cui solo a tratti e per brevi momenti riuscia­mo a rappresentare qualche aspetto.

Mario Giannatiempo

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