La mostra di Lawrence Carroll ospitata a Napoli dal 25 marzo al 5 settembre, a tre anni dalla sua scomparsa avvenuta a Colonia nel 2019, è una retrospettiva che attraverso 80 opere, vuole dare una complessiva possibilità di lettura e conoscenza di un artista che ancora oggi rimane una figura eccentrica rispetto ai grandi movimenti artistici del novecento.

La sua ricerca artistica infatti è rimasta isolata, un percorso individuale, incentrato su due particolari concetti fondanti: una contiguità tra pittura e scultura, un ruolo scultoreo della tela. Sembrano due elementi sovrapponibili, ma coniugati separatamente hanno permesso a Carroll di realizzare quelle opere diverse e originali che lo hanno reso un’icona dell’arte contemporanea. Era nato a Melbourne nel 1954, ma dopo pochi anni la sua famiglia si era trasferita negli Usa dove aveva fatto tutto il percorso di studi. Il suo avvicinamento all’arte non era stato immediato, anzi per molti anni aveva lavorato come illustratore per necessità, visto che a 22 anni era già sposato con figli.
Ma non aveva mai smesso di sperimentare, inseguendo un impulso creativo sempre attivo anche se non ancora maturo e consapevole. Poi improvvisamente, dopo tante notti trascorse ad alimentare questo fuoco interiore, aveva sentito in modo forte e chiaro che la sua strada era l’arte, che voleva essere un artista e vivere realizzandosi in questa professione. Una folgorazione tardiva? Può sembrarlo visto che la sua prima mostra arriva solo nel 1988, quando cioè il giovane ha già 34 anni. Ma già nella mostra dell’anno successivo in Europa ad Amburgo, seppure insieme ad altri sette artisti, Lawrence riesce a distinguersi avviandosi verso il successo degli anni successivi. Sicuramente le difficili esperienze di una infanzia povera, le abitudini familiari al risparmio, alla conservazione di quanto poteva essere riutilizzato, hanno avuto un’influenza decisiva nel modo con il quale l’artista realizza le sue opere.
Sin dall’inizio le sue tele sanno di recupero, sembrano già usate, rovinate e rimesse a posto in un modo che però non riesce a nascondere i danni passati (l’artista ricorda spesso come anche mentre era illustratore recuperava le tele buttate dagli studenti per riutilizzarle). Ma c’è del poetico anche nella povertà dei mezzi pittorici, nella penuria di colori, nel riutilizzo di oggetti, se si guarda al mondo leggendolo con il cuore, senza condizionamenti o pregiudizi, sentendolo lirico e autentico anche nella semplicità. Ed è questa prospettiva a guidare la ricerca dell’artista australiano, ad alimentare quella sperimentazione che porta alle “scatole dipinte”, alle tele bianche, alle sleep paintings e infine alle frozen paintings. In questa successione di nuovi stadi creativi Carrol sperimenta le capacità pittoriche delle superfici tridimensionali, le potenzialità espressive di cromatismi poveri nei pigmenti ma ricchi di riferimenti allusivi e simbolici, infine la vitalità della materia che sembra avere un’anima e intelligenza. In quest’ottica le opere diventano corpi nello spazio, forme che chiedono posto e collocazioni dinamiche, ma individuali, rivendicando anche il diritto/dovere al cambiamento, una mutazione che già esiste in natura e che l’arte non deve negare.
Vale la pena di ricordare alcuni pensieri espressi da Carroll durante un’intervista concessa ad Emanuela Burgazzoli nel 2016: “l’idea di un’arte universale che possa mettere d’accordo tutti non è il mio scopo. Non voglio che i miei quadri vivano solo nella testa di qualcuno. Vorrei che fosse anche un’esperienza fisica”. Dunque la fisicità è ciò che deve innanzitutto colpire lo spettatore, invitato a toccare, a sentire la materia del colore, della tela, degli oggetti entrati a far parte dell’opera.
Essa è un’esplorazione, un viaggio, nella realtà e nella fantasia, nel mondo esteriore e in quello interiore. In un’altra occasione, presente nel film-documentario di Simona Ostinelli (2019) Finding a place, l’artista dice testualmente: “Quando realizzi un dipinto, secondo me, non sai mai dove andrà a finire, non sai mai chi ci troverà qualcosa…la pittura è un luogo. Dipingendo cerchi di trovare un luogo. Come puoi immaginarlo nei dettagli, prima di arrivarci?”. La pittura è intesa, dunque, come esplorazione che indaga gli spazi del monocromo appena sporcato o contaminato dal grigio e dall’ocra, la tridimensionalità solida del colore, la fisicità del pensiero.
Questo artista è stato un nomade nella vita e nell’arte, avvicinandosi ed allontanandosi dagli altri viaggiatori come è giusto e logico che avvenga. Si è sentito molto vicino a Morandi per il tipo di vissuto, per la ricerca e la sperimentazione dei materiali, ma ha comunque seguito un percorso personalissimo che non manca di stupire addetti ai lavori e visitatori occasionali. La mostra al Madre di Napoli è anch’essa un viaggio nell’arte di Carroll, ne ripercorre i passi, fermandosi di più dove occorre, come nella riproposta dei lavori che erano stati esposti dall’artista alla 55ma Biennale di Venezia del 2013, dove nel padiglione della Santa Sede aveva proposto una personalissima rivisitazione della Genesi, la Ri-Creazione, ri-portando in vita e ri-generando materiali inerti e logorati. La mostra di Napoli curata da Gianfranco Maraniello non mancherà di stupire il visitatore, poiché vuole rendere percepibile, e vi riesce, il sentimento che Carroll ha sempre avuto del mondo: una sovrapposizione di tracce passate e presenti, un unicum di cui solo a tratti e per brevi momenti riusciamo a rappresentare qualche aspetto.
Mario Giannatiempo