Il Piccolo Museo della Poesia di Piacenza ospiterà dal 3 aprile al 30 luglio e poi dal 3 al 24 settembre un grande evento culturale incentrato sulla presenza di Omar Galliani, che nell’occasione “dialogherà” con un importante maestro del quadraturismo barocco, Ferdinando Galli Bibiena, autore dell’affresco della Cupola della Chiesa di San Cristoforo, sede del Museo stesso. L’evento intitolato “Ab umbra lumen” è a cura di Massimo Silvotti.

L’artista di Montecchio Emilia (Reggio Emilia) è uno dei maestri riconosciuti del disegno che sa far viaggiare lungo linee narrative e poetiche diverse, come ho avuto modo di verificare “in presa diretta” in mostre da me curate alcuni anni or sono: “Omar Galliani” a Palazzo Frisacco di Tolmezzo (UD), “Polvere perle e seta” alla Polveriera Napoleonica di Contrada Foscarini a Palmanova (UD), “Nuovi Fiori, Nuovi Santi”, alla Torre medievale di Moggio (UD), “Disegno italiano” alla Mestna Galerija di Lubiana (Slovenia).
Nell’artista il portento della visione si attua nei moduli di una pittura che vive su una molteplice tattilità con la superficie, dove epifanie di presenze femminili si precisano dentro una parvenza di materia in movimento metamorfico. Nella sua ispirazione le emergenze della cultura costituiscono la nervatura di un pensiero che si prospetta allo sguardo del fruitore in immagini, dove il dato metaforico attinge profondamente alla sostanza del mito che, a sua volta, si flette in una circolarità di senso, affascinante nelle articolazioni significanti dell’emblema rappresentativo.
La superficie, percorsa da una miriade di segni tracciati con gesto variabile, è una sorta di sipario di rivelazione per presenze assolute, paradigmi degli albori, entità originarie, sulla cui pelle si misura l’incandescenza di un contrasto fra concretezza della materia e rarefazione della poesia, tra il “qui e ora” della creazione e “l’ovunque e sempre” dell’eternità che l’avvolge.
Il volto è paesaggio vero e proprio, scisso dalla fisicità del reale e proiettato in un universo di vibrazioni simboliche; l’espressione estatica rimanda a un’aura che nasce da una sorta di rito, nel quale Galliani va a scavare il senso di una valenza archetipica, consegnata al potere generante della matita oppure del pennello, che fa emergere come da una profondità magmatica parvenze fisionomiche, soprattutto femminili. E anzi il femminile diventa una categoria dello spirito nella quale l’artista dialoga con il potere generante dell’arte, in cui la donna, incarnando nelle sue punte di eccellenza l’idea del bello assoluto, diventa protagonista. Con questa il colloquio si fa denso di silenzi, quasi in un rapimento estatico, in un distacco conclamato dagli accadimenti della realtà fisica, per assaporare a pieno i riflessi di un’universalità senza tempo e senza luogo. Perché la sua sede è il mito, quell’ambito così vicino alla dilatazione del cielo dove fluttuano in sovrapposizione sagome floreali e simulacri di cose, disseminate in un vortice leggero di energia misteriosa. Mentre i contorni di realtà figurali, come icone in filigrana, corrispondono a un’idea di congiunzione simbolica tra il volto e l’anima, la realtà e i suoi dettagli.
La potenza e povertà del mezzo convergono verso una sintesi straordinaria che consente l’immediatezza della trascrizione, in un rapporto tattile di elevata sensualità simbolica: la pelle dell’artista incontra lo strato epiteliale del foglio o della tavola; qui le fibre della carta o le venature del legno non vengono semplicemente coperte dall’intervento di Galliani, ma coinvolte nell’atto creativo, risultando, ad opera finita, complesso di evidenze segniche innestate nel corpo pulsante della pittura. “Io lavoro sulla pelle, quella dell’albero, un pioppo gigantesco spolpato della sua corteccia, superficie che io vado a coprire lentamente, processo alchemico, il nero sul bianco.
In questo rapporto tra nero e bianco, tra luce e ombra, c’è qualcosa che riguarda l’alchimia. Lavoro con due materiali contrapposti; uno, la grafite di piombo geologicamente profonda, è nelle viscere della terra – è una stratificazione geologica che precede il diamante -, materia antichissima, compressione della terra, negazione di luce, ma in realtà la sua famiglia è il corpo più trasparente e cristallino della terra, il diamante.”
La matita (o carboncino o la sanguigna) si muove leggera in un percorso che presuppone momenti di accensione, passaggi forti, imprimiture decise, secondo la necessità di estrarre plasticità dalla logica del chiaroscuro; e il segno si ammatassa in porzioni di fisicità, esibita al fruitore con una composita e variegata tessitura, esposta in maniera decisa a un occhio attento a coglierne l’essenza in una ricognizione ravvicinata del quadro. In questo caso l’immagine si rivela, prende corpo proprio sul suo essere l’affermazione di un ossimoro, la fisicità dello spirito, reso percettibile da una figura, quintessenza della bellezza; essa è capace di sfuggire alle determinazioni del prototipo che diventa modulo standardizzato, per farsi invece sostanza visibile del prodigio, innescato dal cortocircuito tra calore della luce e mistero dell’ombra.
Molto indicative della profondità concettuale nella ricerca di Galliani sono, per esempio, le “Nuove Anatomie” dove i volti e i corpi sono pure parvenze che vivono in un vuoto sacrale, estrapolato dalla condizione spazio-temporale; collocate in uno stato di silenzio incantato per alcuni versi, inquietante per altri; mostrano porzioni corporee attraversate da fasci muscolari irrorati dal sangue vivo del pigmento, che stacca e contrasta con le trasparenze dell’immagine in un’imperiosa dinamica di fraseggi lineari. Le presenze, umane e oggettuali, che danno vita a queste opere si “muovono” invece in un ambiente buio, penetrato dal calore della luce, e tornano ad affermare la sovrapposizione simmetrica fra disegno e pittura, come un’unica grande via espressiva di sensi e sovrasensi.

E così in uno sfarfallio di riflessi, vortice di emanazioni baluginanti, un’incandescenza sottopelle, la figura (come strappata al mondo fatuo della moda e della pubblicità) viene decontaminata e collocata nel territorio del “qui e ora” perenne, quasi la cadenza del tempo si fosse fermata in uno spazio estraneo ai condizionamenti della gravità. La tessitura compositiva si presta a una duttilità di fondo che ispessisce la maglia di filamenti fino all’accenno al rilievo, oppure la dirada fino all’evanescenza. Nelle “Nuove anatomie” Omar Galliani interpreta il senso della fisicità attribuendo al corpo la qualità della rarefazione assoluta, facendolo addirittura galleggiare in uno stato di sospensione metafisica: ritaglio del vuoto, in cui la matita percorre un tragitto utile a rendere il contorno con intermittenze prodotte da piccole sfumature ad alone del segno sul cranio e sul dorso.
Qui si racchiude l’idea di una realtà corporea dove la testa è il centro nevralgico della qualità dell’esistere. Minime evidenze rossastre aprono squarci di visibilità sui flussi sanguigni in una determinata porzione anatomica, come il collo dove, fluendo dal cervello alle articolazioni periferiche, passa il battito di vitalità intensa, che è esplicita anche quando l’occhio chiuso segna il diaframma con il contingente, ma apre orizzonti di spazi senza limiti, punteggiati dalle luminescenze dell’universo. I “Nuovi fiori” e i “Nuovi Santi” poi inalberano il vessillo del simbolo, dove nella prima serie gli elementi vegetali rimandano al senso di armonia in natura, dopo il lavorio che accompagna il processo di crescita e, quindi, di trasformazione; mentre, nella seconda serie, i protagonisti della celebrazione del bello incarnano il senso tutto laico di una santità, acquisita con la sofferenza quotidiana.
In questi dipinti il dato di una bellezza fisica, intimamente legata alla realtà, si innesta nell’atmosfera sublime di una sospensione, dove alita il vento sottile di un erotismo che si fa combustibile per un viaggio nelle regioni iperuranie; queste sono pervase dall’armonia di luci che imperlano i volti, prelevati dai palcoscenici della moda e proiettati nel mondo di galassie, pullulante di richiami alla religiosità del bello. In varie opere di Galliani la superficie lignea, cioè il pioppo con le sue connotazioni naturali, minime asperità nella versione grezza, venature con cui descrive la propria vita, partecipa all’evento non soltanto quale supporto della composizione, ma entra nelle fibre costitutive della creazione anche ad opera finita, quando ingiallisce lievemente dando al tutto una patina di sospensione ulteriore.
La consuetudine e la confidenza con il mezzo espressivo evidenzia i tratti di una vocazione per il disegno, quale analisi e proiezione di significati che l’artista assume dal mito, dalla storia, dalla realtà a lui vicina, intesa come quel cumulo di segnali, valori e motivi che affollano i suoi interessi quotidiani. La mina di piombo è in tal senso la fonte di una miriade di filamenti che si ammatassano sull’area lignea, creando uno strato epiteliale mutevole, secondo le necessità di far vedere oltre o di fermare la visione sul piano dipinto. Il tratto rivela in vari punti il suo percorso impresso dalla mano dell’artista, mentre altrove “scompare” in un fitto fraseggio di linee che costituiscono uno schermo da cui emerge un volto o una presenza simbolica che si espongono alla luce per annunciarsi nello scenario dell’esistenza.
Le espressioni fisionomiche e i gesti sono tutti confinati in una liturgia che rimanda a una temperie fortemente spiritualizzata: qui il silenzio pare la condizione propedeutica all’inizio di una musica ambigua, di quelle che giungono lievi all’orecchio per invadere l’animo e rapirlo in un’estasi lunga e progressiva che accompagna i soggetti o verso il buio più totale o la luce più accecante.
Nella serie dei “Nuovi santi” l’atmosfera è quella di una sacralità innestata nel quotidiano, auspice una figura – per lo più di donna – che in uno sguardo di lontananza, se non di ascetico distacco, è al centro di un moto circolare prodotto dalle orbite di anelli, perle e monili; questi sono i feticci del contemporaneo che, simbolicamente orbitano sulla tavola, mentre la grana del disegno rivela il colore chiaro del pioppo, parte integrante dell’evento creativo. La pelle della pittura (il disegno ha infatti una struttura prettamente pittorica) si ispessisce o si assottiglia in un progetto di costruzione iconica che guarda, per un certo periodo, all’immagine della donna così come la presenta la fotografia della pubblicità.
l valore epifanico della figura si affaccia all’occhio del fruitore per ulteriori passaggi di grafite, sospinta con forza da Galliani che ingaggia con la superficie di pioppo un autentico corpo a corpo. Il segno sviluppa una fibra epidermica, una sorta di involucro aperto a sollecitazioni visive, che da lontano aumentano rendendo più chiara la definizione dell’immagine. Il piano, considerato a distanza ridotta, è un luogo abitato dalle peculiarità del legno che aggettano pur lievemente, formando un invito tattile con la luce. L’artista dilata spesso la grana del nero con la forza dei polpastrelli, perché anche questo diventa rapporto fisico con l’opera che nasce. Il lavoro lascia trasparire la tessitura dell’opera, da cui quasi in filigrana appaiono abbozzi scheletrici di teste che stridono in dialettica rilevanza con il volto in primo piano, splendido sigillo di rilievo femminile così vicino da rendersi palpabile e carezzevole allo sguardo eppur così lontano da dislocarsi in un’estremità della coscienza.
D’altro canto egli stesso sostiene che la sua è anche “attività ginnica”, considerata la forza espressa dal movimento della mano e delle braccia per “avvolgere” tavole di grandi dimensioni in un bozzolo di sensazioni del formicolio della volta celeste. Il tutto è come filigrana di un mondo “altro”, inserito in una cosmologia dell’impossibile che diventa visibile grazie al miracolo di un’arte, in cui il talento pittorico e la capacità di poesia generano i sensi di una bellezza per gran parte declinata al femminile. Il suo nucleo essenziale si apre a flessioni diverse dentro un’unica immensa dimensione astrale, percorsa da luminescenze che danno l’idea di muoversi in un complesso di traiettorie completamente autonome.
Enzo Santese