Ci sono aurei libretti che racchiudono universi, la cui lettura crea un’atmosfera ospitale, un luogo d’accoglienza in cui ci riconosciamo, al punto che quando finiamo di leggerli, ci dispiace congedarci da loro. In realtà le atmosfere evocate nelle loro pagine rimangono per sempre dentro di noi e ci riscaldano il cuore e l’immaginazione. È questo il caso dell’ultimo libro di Marilia Mazzeo “Venezia e io”, Helvetia Editrice 2021, la cui lettura ci cattura fin dall’inizio. Non è facile scrivere di Venezia, è una città perenne fonte d’ispirazione sulla quale è stato scritto tutto e il contrario di tutto. Se ne sono decantati il fascino, l’arte, la bellezza, la storia, se ne è deplorata la decadenza, le politiche dissennate che l’hanno ferita e svilita, ci si è lamentati per la continua emorragia dei suoi abitanti verso la terraferma, per l’acqua alta, per il tracotante passaggio delle grandi navi nel Canale della Giudecca, per la trasformazione delle case in alberghi e bed and breakfast, per il turismo becero e distruttivo al pari di un’invasione di cavallette,
eppure, alla parola Venezia l’immaginario collettivo prova ancora un sussulto, una vertigine: questo nome evoca ancora una bellezza fragile e complessa, una dimensione onirica e lirica che appartiene a lei sola. In questo prezioso libretto l’autrice, Marilia Mazzeo, forestiera inurbata, nata a Ravenna, residente a Venezia dal lontano autunno del 1987, racconta il suo rapporto personale con la città, in una specie di diario sentimentale-esistenziale che scandisce importanti tappe della sua esistenza, dai tempi della vita universitaria alle prime esperienze lavorative, dalla vita di coppia alla maternità: il filo rosso che la lega inestricabilmente alla città è l’amore per la lettura e la scrittura.
Per l’Autrice scrivere è un’autentica vocazione e quale città più di Venezia è indicata per chi è votato alla letteratura? Nel libro il rapporto con la città si sviluppa in concomitanza con l’amore per la letteratura fin dagli esordi, quando Marilia, giovane studentessa d’Architettura, racconta che amava la sua camera d’affitto con gli intonaci che si sfarinavano per l’umidità poiché questo la faceva sentire emula di Raskolnikov, lo studente squattrinato di “Delitto e Castigo”. Questo parallelismo la induceva a vivere con fierezza la sua condizione, senza desiderare di migliorare la sua situazione trasferendosi magari in una stanza d’affitto a Mestre, sicuramente più salubre, ma meno letteraria. Venezia è una città in cui lo stretto e continuo contatto con le acque che calano e crescono ogni sei ore, favorisce una spontanea frequentazione con il proprio inconscio. L’amore per Venezia in Marilia è legato anche all’amore per la Mostra del Cinema, evento che annualmente offre la possibilità di conoscere la produzione cinematografica mondiale; l’Autrice afferma di preferire i film di registi poco conosciuti, film che altrimenti non avrebbe mai occasione di vedere, piuttosto che i film spettacolari con attori di fama internazionale.
Nelle pagine dedicate all’esperienza dei giorni sospesi e irreali della quarantena dovuta alla pandemia, la città assume una dimensione metafisica che l’Autrice racconta mirabilmente: un clima d’incertezza e di sospensione sotto il cielo di smalto di una primavera precoce. Venezia vuota, disertata dalle orde di turisti, i grandi alberghi chiusi, l’acqua immobile e ferma nei canali dalla limpidezza inquietante, Venezia preda di un incantesimo che ne esalta il senso di bellezza e di precarietà chiamata dagli antichi “instabilitas”, che diviene metafora vivente di una bellezza tragica e fatale come il mistero della vita stessa.
Lucia Guidorizzi