
Anj Smith, ospitata per la prima volta in Italia, nelle sale di Palazzo Bardini, a Firenze, fa della contaminazione una cifra ricorrente e significativa della sua arte. Nei suoi lavori si sovrappongono elementi decorativi classici e moderni, echi cinquecenteschi e input del nostro tempo in composizioni che incuriosiscono e destano meraviglia anche nei formati. Infatti le dimensioni delle opere sono piuttosto esigue rispetto alla ricchezza degli elementi pittorici e figurativi utilizzati. L’artista sembra quasi prediligere una tecnica miniaturistica come strumento di lavoro per accogliere il più largo numero di stimoli creativi, evitando una dispersione nello spazio che impedirebbe di annotare anche il particolare. La mostra di Firenze, curata da Sergio Risaliti direttore del Museo Bardini, che ha come titolo A willow grows aslant the brook, vede inserite nelle sale, tra le opere e gli oggetti esposti, dodici lavori della Smith, collocati in punti strategici degli ambienti, come se l’esposizione delle tele dell’artista britannica, interagendo con il materiale storico del museo, continuasse anche esternamente quel dialogo interno tra passato e presente, tra fantasia e realtà. Il successo di Anj Smith, che ha studiato alla Slade School of Fine Art di Londra, una scuola apprezzata a livello mondiale, è cominciato agli inizi degli anni 2000 e non si è più fermato.
Sin dall’inizio l’artista ha sovrapposto nei suoi lavori elementi afferenti a contesti diversissimi: ambiente, moda, natura, flora e fauna, trovando un’originalissima sintesi che cattura e ipnotizza costringendo lo spettatore a soffermare lo sguardo in successione sui diversi elementi della composizione, in una visione d’insieme e nello stesso tempo frazionata e parcellizzata. Ad esempio, in Lettere dell’inconscio (2016), la figura femminile rappresentata mostra un taglio di capelli moderno, occhiali celesti, avvolgenti, di plastica trasparente, una posa da donna sicura, avvolta però in un abito d’altri tempi. Il collo è poi circondato non da una pelliccia ma una scimmia lanuginosa che sembra riposare quietamente. Solo un casuale gioco compositivo? L’artista confessa di trovare nell’arte pittorica una sorta di scrigno che conserva memorie passate che lei ama riscoprire facendole dialogare con il suo vissuto, le sue pulsioni. Insomma per lei la pittura non è una tecnica ma un ponte con il passato in cui ama avventurarsi portando con sé anche la storia del presente. Ma questo passaggio non è razionale né controllabile nelle sue fasi, proprio perché nasce da inconsce spinte interiori.
Di qui la visionarietà delle immagini che alla fine trovano spazio sulla tela: i paesaggi sembrano onirici, visioni fantastiche e simboliche. I visi appaiono enigmatici, assorti, spesso coperti da un velo trasparente che accentua insieme il concetto di tempo passato e di sogno: la natura umana tende a metamorfizzarsi diventando un unicum con flora e fauna come in Paesaggi di arborealità (2017), in Falso Steward (2019), L’amante (2020), I paesaggi, quasi sempre aridi e notturni, senza vita, diventano proiezioni di inquietudini ed ansie tutte umane, come in Paysage borealis (2007), Escrementi (2016). Insomma, estremamente intrigante l’arte di Smith perché fa della simultaneità un suo modus operandi, accogliendo sulla tela quanto la memoria oggettiva e soggettiva, quella personale e collettiva hanno conservato e messo a disposizione non solo della scienza, ma anche della pittura. La mostra è aperta fino al primo maggio 2022.
Mario Giannatiempo