Da sabato 9 ottobre a domenica 30 gennaio 2022, gli spazi espositivi della Fondazione Ferrero ad Alba, Cuneo, ospitano una mostra retrospettiva dedicata ad Alberto Burri, uno degli artisti più innovativi e originali del Novecento. Attraverso quasi 50 opere il visitatore potrà compiere un vero viaggio nella creatività di un artista (diventato tale per caso o per destino, come meglio si vuole credere), che ha dato alla ricerca dell’arte moderna un contributo inestimabile attraverso opere che fanno di lui forse il maggiore rappresentante dell’informale materico. Alberto Burri, morto a Nizza nel 1995, era nato a Città di Castello nel 1915. La laurea in medicina, conseguita nel 1940, lasciava intendere un percorso lontano dall’arte, ma la guerra e la prigionia indirizzarono diversamente gli avvenimenti successivi. Fatto prigioniero in Tunisia (1943) dove serviva come medico, si rifiutò di collaborare con gli alleati e fu mandato in Texas, in un campo di detenzione da cui ritornò solo nel 1946. Ma proprio in America si avvicinò alla pittura, una passione diventata sempre più forte e coinvolgente, totalizzante in effetti, visto che poi visse solo con essa e per essa, mettendo da parte la professione medica. Insomma senza questi avvenimenti forse Burri sarebbe rimasto un medico come tanti altri, forse più bravo o meno bravo, ma un medico non un artista. Lo potevo fare anch’io (famoso saggio di Francesco Bonami), l’avranno pensato in tanti davanti ai “sacchi, alle argille, alle plastiche, ai catrami, ai cretti” proposti da Burri nelle sue sperimentazioni materiche ma la scelta di ricorrere alla materia, quella umile, quotidiana che accompagna la vita di tutti, e farla diventare protagonista dell’arte è una decisione che non si inventa, non si improvvisa, nasce da una condizione culturale di stanchezza e rifiuto della forma, sentita come logorata e ripetitiva, accademica, scolastica. Ed è necessario anche un contesto storico particolare perché possa maturare uno stato d’animo sufficientemente pessimistico per pensare all’impossibilità per l’uomo di realizzarsi nell’ordine, in uno spazio razionale, e per guardare al gesto creativo come espressione già compiuto, finito e risolto in sé e in ciò che la materia sceglie di essere o può essere, una volta liberata dalla forma assegnata e ricomposta nel segno dell’impulso, nel solco della pulsione interiore dell’artista. Burri ha fatto questo percorso, ha vissuto la crisi che in pittura ha dato vita all’informale e che in letteratura ha prodotto l’esistenzialismo, trovando nella materia, naturale o chimica, pulita o sporca, e nei suoi diversi usi la strada per esprimere la propria inquietudine e quella del suo tempo. Non a caso la mostra curata da Bruno Corà, presidente della Fondazione Palazzo Albizzini, Collezione Burri, ha come titolo “La poesia della materia”, quasi ci fosse una specie di sovrapposizione tra la poetica dell’artista e quella della materia, e la seconda meritasse un protagonismo finora trascurato. Tutti conoscono le varie tappe della ricerca artistica di Burri, ma forse sono poco conosciuti i suoi contributi al teatro per il quale ha preparato scenografie di grande effetto (per esempio quelle realizzate per il “Tristano e Isotta” di R. Wagner, nel 1975 per il Teatro Regio di Torino; gli studi e i bozzetti per il Balletto “November Steps”, 1972, per Teatro Continuo del 1973). Ma forse merita una nota di rilievo il senso fortemente architettonico dello spazio con il quale l’artista sentiva strettamente legati sia i lavori esposti che i locali espositivi, contenuto e contenitore. Mai artista ha curato con un’attenzione quasi religiosa la distribuzione dei suoi lavori, la loro collocazione, la conservazione e le possibilità di studio ed analisi delle collezioni lasciate. La Fondazione è una creatura di Burri, la ristrutturazione dei locali, la sistemazione delle opere nei piani rispondono a un rigore costruttivo che lascia stupefatti. Potrebbe sembrare questa una contraddizione: un ritorno all’ordine come negazione di quel caos espresso in tante opere, ma in verità la lettura più corretta è di una ricomposizione dell’equilibrio di sempre, quel rapporto che senza negare la doppia esistenza ne rispetta le rispettive identità, anche separandole.
Mario Giannatiempo