Dopo aver visitato la XVII Mostra Internazionale d’Architettura a Venezia (2021) dal titolo How we will live together? che si apre con questo pressante interrogativo e, dopo aver lasciato sedimentare le impressioni che ne ho ricavato, mi sembra necessario trarre alcune considerazioni.

Ho avuto la chiara sensazione che tutta la mostra sia improntata e dominata dal tema dell’insecuritas, dettato dall’incertezza dei tempi attuali. Vuol dire, letteralmente, non-senza-cura, intendendo cura come preoccupazione, affanno, difficoltà, pensiero angustiante e perturbante. Quella attuale investe l’esistenza umana nella sua globalità, a tutti i livelli. Perciò, l’insecuritas esistenziale è, in un certo senso, per l’uomo contemporaneo, essenziale. Nella vista alla Mostra Internazionale d’Architettura emerge la percezione di stare attraversando un profondo cambiamento epocale, di vivere una fase di transizione in cui alcuni valori di riferimento sono definitivamente tramontati, ma ancora si stenta a definire quali saranno i nuovi. Nel vedere i vari padiglioni, mi sono accorta che alcune parole ricorrono insistentemente, come “ambiente”, “resilienza”, “bene comune”, evocatrici di temi apparentemente importanti e condivisibili, ma che rivelano un’evidente fragilità esistenziale, legata indubbiamente alle contingenze attuali. Il futuro ai nostri giorni si configura incerto e confuso e gli allestimenti effimeri e transitori che dominano la Mostra ne evidenziano l’essenza precaria.
Un tempo, ogni periodo era contrassegnato da uno stile architettonico che esprimeva con forza e determinazione la koinè, i valori e l’aderenza a un pensiero che manifestava la sua portata demiurgica: si produceva uno stile, un modo d’essere, di cogliere lo spazio e l’interazione con gli altri. Ad esempio, i principi rinascimentali educavano attraverso il mecenatismo e promuovendo l’arte e l’architettura contribuivano al costituirsi di una imago mundi riconoscibile e ben definita che dava una percezione di solidità e di concretezza. Le fedi e le religioni erano in grado di erigere templi e cattedrali millenarie che con la loro immagine costituivano la fisionomia urbana e s’imprimevano profondamente nell’immaginario popolare; ora, invece, manca questo collante emotivo a tener insieme le persone. La Mostra, pur declinando in differenti modi la volontà di tenere uniti gli individui attraverso la condivisione di spazi comuni in ambito urbano e abitativo, sembra che non sappia individuare la motivazione di questo vivere comunitario. Del resto, se pensiamo a com’erano le città del passato, non possiamo fare a meno di prendere atto che si trattava di luoghi ricchi di bellezza e di contrasti, di violenza legata alla produzione e che in esse confluivano interessi spesso conflittuali. Sempre più ai nostri giorni emerge la consapevolezza di come i diversi ambiti di conoscenza siano interconnessi e questo evidenzia quanto la formazione settoriale abbia ormai fatto il suo tempo, segnando una fase definitivamente superata nel modo d’intendere l’architettura. Altre parole d’ordine presenti in questa XVII Mostra sono “resilienza” e “ambiente”: se resilienza è la capacità d’un oggetto di resistere agli urti senza andare in pezzi, in ambito psicologico significa la capacità di un individuo di affrontare le difficoltà legate a un evento traumatico e rivela parecchi riferimenti con il problema del degrado ambientale che sta diventando sempre più assillante nelle prospettive presenti e future. Indubbiamente i temi rappresentativi in questa congiuntura storica ci portano a riflettere sulla capacità dell’uomo e della natura di riuscire a resistere agli urti più violenti e alle sollecitazioni più invasive per poter aprirsi a una prospettiva nuova in cui poter declinare in vari modi la risposta all’inquietante domanda How we will live together?
Lucia Guidorizzi