La mostra dedicata da Urbino a Pietro Vannucci detto il Perugino è parte degli eventi che accompagnano le celebrazioni del quinto centenario della morte di Raffaello. Curata da Vittorio Sgarbi, viene ospitata nelle Sale del Castellare del Palazzo Ducale dal 20 luglio al 17 ottobre 2021. I lavori presentati provengono da Musei e Gallerie pubbliche di Umbria e Marche, ma non sono tutte opere del Perugino. Infatti, anche se la mostra si sviluppa attraverso diverse sezioni, una sola è dedicata al Vannucci e presenta opere di un periodo specifico della sua produzione. Ha dunque una strana fisionomia questa iniziativa: attraverso un omaggio al maestro vuole essere un ulteriore celebrazione del genio di Raffaello, ma rischia di non essere efficace in nessuna delle due direzioni. Lo stesso titolo rimane ambiguo e conferma la sensazione di un evento che non riesce a decollare in una precisa direzione, per quanto si voglia cogliere il messaggio implicito per il quale quanto più grande fu Vannucci tanto più grande divenne il genio di Raffaello.
Le tre sezioni in cui è articolata la rassegna danno chiavi di lettura intrecciate e interdipendenti: la prima presenta il contesto dell’Arte della seconda metà del quattrocento, quella in cui operarono gli artisti che precedettero il Perugino e dai quali sicuramente egli apprese e affinò disegno e tecnica del colore, specialmente nella definizione della luce; la seconda è dedicata all’arte dei colleghi, per evidenziare la differenza e la progressiva superiorità del Vannucci; infine la terza sezione mostra le opere realizzate dal Perugino prima della partenza dell’allievo Raffaello dalla sua bottega. Infine un’ultima sala è dedicata al famoso manierismo che si affermò negli anni successivi alla morte del Vannucci e che vuole essere conferma dei valori raggiunti dalla sua arte, tali da suscitare un vero seguito di imitatori. Ma quali sono le caratteristiche dell’arte del Perugino? Illuminante diventa un giudizio espresso già nel 1800 da John Ruskin, uno scrittore, pittore, poeta e critico d’arte britannico, che così recita: Nel Perugino […] semplicemente non c’è tenebra, nessun errore. Qualsiasi colore risulta seducente, e tutto lo spazio è luce. Il mondo, l’universo appare divino: ogni tristezza rientra nell’armonia generale; ogni malinconia, nella pace.
Dunque Vannucci inaugura una pittura in cui domina la luce, dove il respiro della vita ci conduce a Dio, dove la tristezza e la malinconia appaiono composte, rassegnate e pacificate. Le sue figure hanno sempre un volto leggermente piegato verso il basso, in segno di una accettazione serena ma non passiva, una partecipazione sentita, consapevole. I paesaggi che accompagnarono nello sfondo tanti suoi lavori erano quelli di una campagna verde e riposante, ricca e curata. Lo spazio ha sempre una sua struttura architettonica sia all’aperto che al chiuso, e le figure vi si collocano quasi in posa fotografica, come se volessero collaborare con la fatica pittorica dell’autore. Questi aspetti fecero dell’arte del Perugino un successo strepitoso, tanto che il Vasari così ne conclude la biografia: Lasciò Pietro ereditaria la pittura d’una maniera vaga et onorata di colori, cosí nel fresco come all’olio, e durò tal cosa per Italia a imitarsi fino che venne la maniera di Michele Agnolo Buonarroti. Riferisce però che la sua arte era mossa innanzitutto dal bisogno, dalla paura della povertà e dal desiderio di un benessere che significava tranquillità per sé e la famiglia. E che per questo, una volta giunto al successo, era diventato ripetitivo perdendo poi progressivamente il consenso degli estimatori e del pubblico in generale. La sua grandezza, dunque avrebbe sempre un “ma” limitativo con cui fare i conti. Lo stesso confronto con Raffaello si sviluppa secondo questa lettura: ne fu il grande maestro “ma” l’allievo superò il maestro. Il confronto tra le due famose opere, lo Sposalizio della Verginedel Perugino e lo Sposalizio della Verginedi Raffaello vede il primo superato ampiamente dall’eleganza e dall’equilibrio del secondo, ma il Perugino non si sentì in competizione con il suo allievo, sebbene la storia dell’arte preferisca immaginare questo.
Mario Giannatiempo