Da pochi giorni Claudio Palčič (nato a Trieste nel 1940) ha lasciato questo mondo, con ogni probabilità per guardare dalla sua “postazione” attuale la realtà quotidiana, nella quale ha sempre affondato con bella puntualità il suo sguardo critico mettendo in evidenza poetica le incongruità, i problemi, ma anche le prospettive potenziali dell’uomo continuamente in cerca di se stesso. Il lungo arco evolutivo della sua poetica registra una serie di snodi, capaci di cadenzare l’orbita di una ricerca che ha il carattere di uno slancio dinamico, pur nel solco della coerenza e dell’adesione alle sue interne motivazioni. Il suo lungo itinerario di ricerca umana e artistica merita alcuni appunti caratterizzanti. Nella fase materica, l’utilizzo di legno, ferro e capsule metalliche, entra in una sorta di sintesi espressiva dove si afferma il netto contrasto tra natura e artificio, dove le forze costitutive dell’una collidono spesso con il peso dell’altro, in un equilibrio precario che è tipico dei nostri tempi. L’artista è prima di tutto un attento indagatore della contemporaneità, dove isola alcuni argomenti portanti per farne il perno di un processo costruttivo ed espressivo, dominato dalla preoccupazione per il presente. Nella seconda metà degli anni ’60 il pensiero ricorrente va al pericolo atomico, agli interrogativi problematici sollevati dalla lacerante guerra del Vietnam, che ha squassato le coscienze di mezzo mondo. È il periodo in cui il persistente colore rugginoso delle sue costruzioni sembra rappresentare una sorta di ossidazione delle coscienze, turbate dai violenti sussulti della storia e dai disarmanti paradossi della cronaca. La sensibilità vibratile dell’artista attiva un circuito di comunicazione intensa tra le ragioni della superficie e quella dello spazio tridimensionale, frequentato poi con elementi plastici rotondeggianti, quasi che la geometria attutisse le punte ispide di una visione tragica del mondo. A questo punto il colore prorompe in tutta la sua forza espressiva a caratterizzare l’opera fino ai giorni nostri: è un dato cromatico che appartiene pienamente al registro emotivo di Palčič, impegnato a spogliare l’immagine di una sua specularità narrativa con l’esistente e a farla respirare di un’interna energia, quella stessa che muove da sempre la sua espressione.

La pittura poggia sempre più sul dualismo tra organico e inorganico, che poi si protende fino alla dilatazione tra materiale e spirituale, inteso nell’accezione che distanzia il concetto dall’idea di percezione sensoriale e quantificazione numerica. Soprattutto nella grafica (serigrafia) l’obiettivo dell’artista, rivolto al mondo circostante, si prospetta all’occhio dell’osservatore con la nettezza di un segno che squadra la pagina e “ritaglia” la figura facendola diventare presenza narrante. Qui talora documenti “fotografici” entrano a pieno titolo nella logica costruttiva che funziona da innesco per un’avventura del pensiero e della fantasia, mai sono registrazione descrittiva di fatti, bensì assunzione di alcuni dettagli per attivare un meccanismo di relazione stretta fra l’opera e chi guarda. Il disegno è la nervatura portante di un processo creativo che parte dalla figura e poi si incanala dentro un flusso
metamorfico che lascia intatto il nucleo d’origine ma lo sviluppa in tracce, rilievo magmatico, sostanza di pensiero che suggerisce stimoli di forte concentrazione concettuale. Il fascino del rilievo anatomico, l’attenzione alle varianti essenziali del discorso pittorico, la ricerca costante del valore cromatico dei pigmenti e la loro connessione coi materiali, sono peculiarità distintive dell’opera di Claudio Palčič, che non intende rappresentare il corpo in quanto tale, ma coglierne le suggestioni anche più misteriose del suo essere involucro di sentimenti ed emozioni. Esso sembra martoriato dagli eventi esistenziali e le figure sono sempre dislocate in una tensione drammatica, a richiamare quasi certe soluzioni manieristiche, come impastoiate in macchine da tortura. L’inserzione della scrittura non ha alcun valore didascalico o esplicativo, è uno strumento generatore di suggestioni che serve a Palčič per spingere all’estremo il tratto drammatico dell’esistente. La parola risuona all’interno
della pagina dipinta come evidenza di una necessità comunicativa, dalla quale l’artista parte per ricreare sulla superficie la profondità di una riflessione, attorno a cui sviluppa una vicenda figurale mossa da una forza metamorfica che ne protende l’anatomia ben oltre i contorni fisici, in un sistema indistinto di segni. Nella pittura, ciò che balza immediatamente allo sguardo è il materiale usato per darle rilievo non solo fisico, ma anche significante: il cartone d’imballaggio, impiegato in ritagli o in porzioni ottenute a strappo, che rendono talora visibili le proprie originarie scanalature interne, oppure le scritte esterne con valore simbolico e metaforico (“Handle with care: maneggiare con cura” è la scritta che appare in più dipinti). Il motivo della guerra, così pressante nella cronaca odierna, è reso con i mezzi che le sono più propri: il carro armato, l’elicottero e l’aereo. L’artista disattiva il potenziale distruttivo di questi strumenti trasformandoli ironicamente in giocattoli “da vedere”. Ridotta è la gamma cromatica in cui, di volta in volta, l’occhio è attratto dal potere catalizzante del nero, del bianco, del rosso, del marrone e dell’ocra. La figurazione resta sulla soglia del percettibile, ma allude a dilatazioni del reale dentro un quadro fortemente intonato a un dinamismo interno. L’albero si campisce recentemente nella centralità della tela con tutto il carico metaforico del suo protendersi verso l’alto, elemento di congiunzione tra la terra e il cielo, verticalità che nella sua vita vegetativa mostra una tensione ascensionale: monumento di natura, cangiante con la luce del giorno e con l’andar delle stagioni. Ma non è un rimando ad altro, anche perché l’artista rifugge dalle derive simboliste, casomai isola il valore emblematico della pianta per un’avventura che sposta la funzione preminente dell’immagine dal significato al significante. Anche qui Claudio Palčič riesce a essere epico senza retorica, monumentale anche fuori dalle grandi dimensioni, teatrale e mai scontato pur nella replica del medesimo tema.
Nella scultura, la stessa forza che anima le tele si sostanzia della sintesi tra staticità plastica e dinamismo delle forme: l’elemento del mito-simbolo (già presente nei dipinti, come la Sibilla e Pegaso, Icaro) prende corpo nelle rilevanze in bronzo con slanci verso l’affermazione del movimento in uno spazio, che è parte integrante dell’intervento tridimensionale. Qui la figura si carica di valori emblematici, descrivendo lo spazio stesso con l’articolazione delle proprie posture e il suo piccolo formato nulla toglie alla carica emozionale di cui è portatrice.
Enzo Santese