La sala Attilio Selva di palazzo Gopcevich, a Trieste, in collaborazione con il Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl”, ospita dal 4 giugno fino al 20 luglio una mostra dedicata a Marcello Mascherini, scultore deceduto nel 1983, che al teatro indirizzò una parte significativa della sua attività artistica. Era nato a Udine, nel 1906 ma aveva vissuto buona parte della sua vita a Trieste, dove aveva frequentato la scuola d’arte “Alessandro Volta”, ottenendone il diploma nel 1924. L’anno successivo era già pronto per la sua prima personale, (aveva solo 19 anni!) la prima di tante altre che in pochi anni lo resero famoso. Uno stile personalissimo, nutrito di riferimenti colti, costruito attraverso lo studio dei grandi artisti del passato e del suo tempo, dai quali seppe imparare con umiltà senza mai scadere nell’imitazione. Non aveva un carattere facile, anzi spesso sembrò scontroso, quasi superbo, ma l’infanzia non era stata facile e le rivalità nel campo artistico non facilitavano le relazioni. Anzi il successo mercantile, che vedeva le opere di Mascherini cercate e acquistate con interesse da collezionisti e da semplici ammiratori, aveva suscitato critiche e invidie ingenerose.
Cinque sostanzialmente le fasi produttive più riconoscibili della sua produzione: la prima classico – celebrativa che arriva fino alla seconda guerra mondiale; quella teatrale, postbellica, che parte dal 1948 e attraversa tutta la vita dell’artista; quella classico-moderna che arriva alla soglia degli anni sessanta; quella “carsica” del dolore e della meditazione degli anni sessanta, infine la fase dei “Fiori” degli anni settanta. Il primo periodo sicuramente risente sia dell’influenza accademica che del classicismo autocelebrativo fascista: le linee della scultura sono morbide, disegnano figure prevalentemente femminili, con forme piene, generose, materne. Valga per tutte ricordare Eva, la scultura in bronzo che vinse nel 1939 il primo premio alla Terza mostra del Sindacato nazionale fascista Belle Arti di Milano. La donna che tiene nella mano destra il famoso pomo della tentazione unisce alla femminilità tentatrice la giunonica abbondanza che esalta il mito della fertilità tanto caro al regime. L’esperienza drammatica della guerra determina un notevole cambiamento nella vena creativa di Mascherini il cui classicismo abbandona le linee morbide per privilegiare un assottigliamento dei corpi, quasi una spigolosità. L’artista rielabora in chiave moderna il linguaggio estetico greco, latino ed etrusco, optando per forme allusive, simboliche, che senza rinunciare alla fisicità e alla bellezza, abbandonano una rappresentazione naturalistica a favore di una proiezione soggettiva che suggerisce più che dire, rileggendo in chiave moderna miti e drammi della storia antica e moderna.
Gli arti superiori e anteriori si affusolano, i colli si allungano e diventano sottili, i visi si sviluppano entro triangolazioni sottintese, tutto il corpo sembra ridisegnato entro uno schema geometrico virtuale. Basta guardare il Faunetto del 1950, Nereide del 1952, fino al Fauno del 1959. Intanto nel 1948, curando la scenografia e i costumi, del balletto Cartoni Animati di Bugamelli, inizia una collaborazione con il teatro Verdi di Trieste che durerà anni. Promuove la fondazione del gruppo teatrale cittadino La cantina, diventa di volta in volta coreografo, costumista e regista in più di 40 lavori teatrali. Insomma un amore vero per il teatro e per la città che lo aveva accolto e gli aveva dato il successo sin dall’inizio del suo esordio. Negli anni sessanta la sua scultura si incupisce, forse anche in seguito alla morte della moglie. La pietra carsica di cui si serve è abbozzata, scavata, lasciata quasi grezza a trattenere ansia e dolore, sentimenti che si intuiscono ma che non trovano modo di liberarsi. Lo dicono esplicitamente opere quali Angelo di fuoco (1961), Arcangelo Gabriele (1962), Chimera del 1969. La vena creativa dell’artista evolve di nuovo negli anni ‘70, la figura umana progressivamente cede il posto a una sorta di mondo floreale di pietra, quasi in un processo di mutazione metamorfico che forse allude ad una sfiducia nell’uomo e nella società dei consumi che si affaccia all’orizzonte (la Trasfigurazione di Dafne, 1972 o Fiore di Pietra, 1974), Morte di Saffo 1980. Le poche opere successive, realizzate prima della morte, nulla aggiungono alla ricerca artistica ormai conclusa.
Mario Giannatiempo