La Royal Academy of Arts di Londra occupa il corpo centrale di Burlington House, un palazzo d’impronta palladiana che si impone con la nettezza delle sue linee a Piccadilly, dove la capitale britannica esprime la sua effervescenza anche in questo tempo pandemico. L’istituzione inglese è sempre sede di prestigiose rassegne, in genere portate a privilegiare il mondo della creatività britannica ma con un respiro sicuramente internazionale. È il caso di Francis Bacon. Man and beast, evento espositivo molto atteso, dedicato all’opera di Francis Bacon (Dublino 1909 – Madrid 1992), con quarantatré dipinti dislocati alle pareti secondo un andamento cronologico e tematico. Le date di inizio e chiusura della mostra previste (31 gennaio – 18 aprile) inevitabilmente sono slittate di tante settimane quante saranno necessarie per considerare poi accettabili le condizioni di sicurezza sanitaria; entro la fine di questo mese verranno annunciate assieme ai rafforzati protocolli che servono ad affrontare con la cautela obbligata l’afflusso del pubblico negli spazi della rassegna e le regole di fruizione delle opere. Il titolo (“Uomo e bestia”) contiene in sintesi il nocciolo della riflessione baconiana, percorsa dalla certezza di un’osmosi continua, in reciprocità simmetrica, tra la natura umana e quella animale. Anzi c’è da dire che l’artista ha trovato sempre negli animali una sorta di incantesimo ipnotico, capace di ispirare figure che, soprattutto agli inizi della sua attività, si collocano tra l’una e l’altra natura.
La mostra è molto efficace anche nella strutturazione di un itinerario, lungo il quale il fruitore ha la possibilità di individuare gli snodi di una poetica complessa, che richiede sempre ulteriori letture e approfondimenti anche in ambiti psicanalitici. Ne nasce una possibilità di visione globale non solo del pensiero ma anche della tormentata interiorità dell’autore, impegnato fin dall’adolescenza a difendere “a viso aperto”, prima di tutto con la sua famiglia fortemente conservatrice, le sue tendenze gay. A sedici anni il padre lo caccia di casa e da allora conduce vita un po’errabonda e, per la mentalità del tempo, irregolare. Girovaga senza una precisa meta determinata, si ferma prima a Berlino, poi a Parigi e infine a Londra.
Bacon vive con disinvoltura la sua omosessualità, incurante di ogni pressione perbenista tipica della società britannica, che solo nel 1967 si apre all’accettazione di questa diversità.

LORELLA FERMO, Francis Bacon, cm 21,9 x 21, tecnica mista su carta, 2021
Bacon nell’opera di Picasso trova le prime suggestioni per una figura che non rimandi all’aspetto formale dell’individuo ma alla sostanza dell’individualità, in cui poi durante tutta la sua ricerca fluttuerà sospinto da un’angoscia che è la prima forza generante della sua poetica. Tralasciando ora le argomentazioni che giustificherebbero la sua difficoltà a collocarsi nella dinamica di una vita pur movimentata, ma serena e gratificante nei risultati, occorre dire che nell’economia compositiva dell’artista entra di peso un problematismo esistenziale che, nel suo essere irrisolvibile, ha paradossalmente la qualità ispirativa e la ricchezza di potenti suggestioni, soprattutto quando individua i suoi soggetti nella realtà quotidiana per trasferirli poi in un’area di esaltata distorsione delle fattezze. L’idea di deformare il corpo nasce dalla volontà di raccontare un’altra storia, posta al di là del velo visibile, perché celato nell’interiorità del soggetto, nel profondo della sua coscienza. Quindi un’operazione di prelievo dall’ “oltre” attraendo l’osservatore a un colloquio sulla base di quanto emerge dal suo mondo più segreto. Bacon parte dalla rappresentazione classica del ritratto lungo una linea evolutiva che lo porta allo stravolgimento del dato reale, sospingendo la figura dentro una sfera visionaria.
La Crocifissione (1933) è una delle pochissime opere sopravvissute alla distruzione di dipinti operata dall’artista non soddisfatto dei suoi lavori giovanili e, nei valori simbolici rimanda al dato delle sofferenze ch’egli sente come ineliminabili nell’essere umano.
La mostra alla Royal Academy inizia con tele del periodo 1944-46 dove Bacon, avendo in mente gli orrori del nazismo, ricrea quella cieca violenza in creature dal vago sapore mitologico, com’è il caso delle Furie di Eschilo, autore classico che crea nella sua coscienza un cumulo di contrastanti suggestioni. La seconda sezione della rassegna è occupata da una serie di inquietanti ritratti dove l’umano e il ferino si fondono in fisionomie distorte fino all’ossessione metamorfica. I riferimenti a punti precisi della storia dell’arte, per lui ricchi di stimoli, sono i più diversi, da Rembrandt a Picasso; dal repertorio tematico di Velasquez mutua poi la presenza di Papa Innocenzo X (quello della sistemazione di Piazza Navona a Roma), un’immagina ieratica di grande potenza soprattutto in quello sguardo profondo che resta scolpito nella coscienza di Bacon, il quale lo ritrae invece dentro un’architettura minimale, capace di richiamare l’idea di una gabbia, dentro la quale il pontefice viene trasformato in una persona comune con un carico di sbigottimento che ne altera i lineamenti. La cancellazione dei particolari o, comunque, della loro aderenza al reale rientra nell’usuale foga, tesa a martoriare i corpi per proiettare in perentoria evidenza il dato della sofferenza insita nell’umano. Mentre il pontefice di Velasquez porta nell’austero tratto del volto l’autorevolezza della sua carica, quello di Bacon lascia trasparire il senso di un’angoscia irrisolvibile, tipica di ogni uomo. Il percorso espositivo conduce poi a un gruppo di quadri in cui sono protagonisti gli animali delle savane, rimasti impressi nella mente dell’artista durante i due viaggi in Sud Africa nel 1950. Per lo studio dei movimenti di donne e uomini nudi e animali l’artista si è rifatto alle sequenze cronofotografiche di Eadweard Muybridge verso la fine dell’800.
Una sala è dedicata ai ritratti realizzati per il suo amante e modello George Dyer, morto suicida dopo una vita condotta con progressiva volontà autodistruttiva. La sua morte è stata una buona ragione per rievocarlo anche in quadri posteriori alla sua scomparsa.
I ritratti di Bacon sono sempre autoritratti (come avviene nel Trittico, del ‘70), mappe di un sentimento che interpreta le presenze che escono dalla loro logica d’origine per diventare ibridi inquietanti, presenze di un visionarietà sommossa da vera inquietudine, ectoplasmi usciti da una condizione di normalità per entrare nell’eccesso figurale, epifanie che si prospettano nello stadio precedente alla loro prossima trasformazione in “altro da sé”, in virtù di una pennellata larga, portata a sovrapporre trasparenze, indicative della complessità strutturale dell’essere.
Il mondo degli animali costituisce sempre una malia per Francis Bacon che ne interpreta le modalità comportamentali, sottolineando le assonanze con l’alterazione delle linee somatiche, la trasfigurazione dei connotati peculiari, la fusione di elementi propri della realtà umana con quella zoomorfica.
Enzo Santese