
Proprio in marzo era in programma a Roma al Palazzo del Bramante un confronto da autentico cortocircuito estetico tra Raffello e Bansky, poi la pandemia ha annullato il programma che forse andrà in onda entro la fine dell’anno. Già questo sta a dire quanto l’artista inglese abbia scalato le graduatorie della notorietà con i suoi temi trattati in interventi pittorici in luoghi e superfici di grande visibilità proponendo al pubblico spunti di riflessione su ambiente, società, la guerra, il problema della globalizzazione, il potere, la politica, insomma un vasto ventaglio di motivi in cui obiettivamente è agevole raccogliere facile consenso. Ma la peculiarità di Bansky è di operare in clandestinità, dentro un involucro di anonimato che ne ha ingigantito i meriti e ha popolato le fantasie degli appassionati. È poco credibile che questo fantasma dell’arte contemporanea esaurisca il proprio fine nella sorpresa che riesce a creare con le sue inattese incursioni su muri delle città più diverse, da Londra a Birmingham, da Venezia e New York; ormai l’alone di mistero intorno al suo nome e la fama raggiunta in ogni angolo del mondo, prima di tutto fuori dai circuiti ufficiali e istituzionali dell’arte, ne ha fatto una sorta di stella cometa della creatività pittorica che, peraltro, può apparire all’improvviso su percorsi non preventivabili e “colpire” con il sigillo caustico della sua forza iconica.
Evidentemente dietro a Bansky c’è un’organizzazione che provvede a supportare l’artista nelle sue performances fulminee, altrimenti sarebbe ben difficile impiantare all’improvviso in solitaria banchi di lavoro, pontili mobili per l’intervento. In realtà anche se i tempi di realizzazione sono brevi (mascherine e spray costituiscono il suo armamentario di dotazione), la preparazione in sicurezza dei luoghi prescelti è un’altra cosa. Ma c’è anche l’aspetto commerciale che presuppone un concorso di persone impegnate a sostenere l’artista e a preservarne l’anonimato. Ora il Palazzo dei Diamanti di Ferrara ha aperto una rassegna che si chiuderà il 27 settembre, Un artista chiamato Bansky, che già nel titolo rimarca il fatto di un’entità sconosciuta che ha peraltro un nome preciso.
Circa un centinaio di opere provenienti da collezioni private (l’artista, ovviamente, non ha potuto essere coinvolto nell’evento), un repertorio utile a prospettare un percorso evolutivo nella sensibilità umana e maturazione artistica dell’autore di Bristol (la città inglese di provenienza è data per sicura e per un certo periodo, l’altr’anno, circolavano voci più volte smentite sulla sua presunta identità: Robert Del Naja, fondatore del gruppo musicale Massive Attack.) Nella rassegna di Ferrara, oltre a dipinti del suo primo periodo, ci sono anche i famosi stencil – disegni realizzati attraverso mascherine preritagliate nel cartoncino – e serigrafie, fondamentali per la diffusione dei suoi messaggi. La sua bravura sta anche nella politica di promozione commerciale; tra il 2002 e il 2009 ha pubblicato 46 edizioni stampate, messe sul mercato dalla sua casa editrice di Londra, che – non a caso – si chiama Pictures on Walls. Tra le opere che più profondamente hanno colpito l’immaginario popolare ci sono: Girl with Balloon, La ragazza col palloncino, e Love is in the Air,
L’Amore è nell’aria, raffigurante un ragazzo che scaglia verso il cielo un mazzo di fiori come fosse una bomba a mano, apparsa significativamente su un murale di Gerusalemme nel 2003 sul confine tra la zona palestinese e quella israeliana. Al Palazzo dei Diamanti c’è anche uno dei suoi lavori più significativi degli inizi, Lab Rat (topo da laboratorio), dipinto con acrilici spray su compensato nel 2000 per il palco allestito per il festival di Glastonbury, rimasto per anni in un magazzino e “scoperto” nel 2014, opera che l’artista, bontà sua, ha autenticato contravvenendo a un’abitudine al rifiuto. I topi sono protagonisti anche dell’opera che Bansky ha postato sui social nelle settimane della quarantena.
E. S.