Gli anni ’90 per l’artista friulano Pietro De Campo sono quelli del periodo materico; in tale ambito comincia a collaborare in una forma sempre più stretta con Luciano Ceschia, sulla collina dei ciliegi di Tarcento, dove si riunisce spesso il meglio dell’arte della regione e oltre. La conoscenza delle materie più diverse instilla l’idea di un’immagine che esce dallo spessore della pellicola cromatica e si concretizza in rilievi di superficie, come tracce zigrinate di una costruzione che assume talora la valenza del bassorilievo. E la figura si acquatta nelle spire della massa che si sistema in epifanie di luce, sostenuta da pigmenti in cui prevalgono il rosso, l’azzurro e il nero. Senza dubbio la temperatura più calda nell’espressione di una prorompente personalità l’artista la manifesta in questo decennio; svaporata la seduzione per Afro, comincia ad assumere i dati di una fisionomia pienamente riconoscibile. Nelle opere materiche risente della vicinanza di Ceschia, con un particolare indugio nell’arte sociale con talune emersioni figurative (elementi antichi, reperti memoriali, crocifissioni, rosoni, croci, architetture, parvenze antropomorfe, nervature di paesaggi). Riferimenti mitologici legati alla riflessione sui tempi presenti si leggono, per esempio nella

Caduta di Icaro, dove sabbia e quarzo danno rilievo materico a una superficie che si muove su due tensioni concomitanti, nel senso verticale dello spessore materico della pittura, e orizzontale per la dinamica di tracce che articolano la complessità dello spazio pittorico. A metà degli anni ’90 risponde a esigenze di committenza lungo una linea operativa che lo impegna continuamente a sperimentare nuove sensazioni dalla combinazione delle masse cromatiche nella griglia di segni e gesti che intessono la superficie. Avverte spesso il fascino della fisicità, in base alla quale concepisce quadri come complessi di situazioni emotive in movimento che hanno come unica coordinata di riferimento un‘allusione all’orizzonte, segnato da corpuscoli che fluttuano in uno spazio attraversato da linee d’energia, onde di forza che si sviluppano in un’idea di profondità.

Talora manifesta l’esigenza di rapprendere l’infinito fermento dell’universo in un reticolo di linee nere che imprigionano lo spazio. Nel territorio dell’informale De Campo arriva a una sintesi dalle molteplici sfaccettature, come una fonte sorgiva da cui sgorgano diversi spunti compositivi, in equilibrio tra l’autenticità dell’immediatezza e il calcolo progettuale. Il nero è uno dei suoi colori fondamentali, sia per segnare il bordo dell’opera, quasi in un accenno di cosmo da cui aggettano tagli di luce in continua metamorfosi, ma anche il rosso ha una forte evidenza emblematica: talora compare in innesti dalla forma vagamente rettangolare e si combina con una serie di segni incavati col manico del pennello, quello stesso pennello che gli consente di produrre velature per dare l’indicazione di più piani sovrapposti su cui si stratifica la realtà del mondo oppure di distanze differenziate nella concezione appena accennata di una prospettiva. Il gesto lascia trasparire il senso spiralico di un avvolgimento di materia che si agglomera attorno a nuclei rossi; l’elemento cromatico esprime la forza leggibile nelle tracce del tempo, quelle stesse a cui De Campo fa spesso riferimento nella sua riflessione, con uno sguardo rivolto al passato non per un semplice momento di nostalgica rivisitazione ma per una continua comparazione con i dati dell’attualità. Nella fase intitolata Tracce del tempo
verso la fine del decennio, la potenza del segno si addolcisce fondendosi con la struttura dell’impianto cromatico, ormai risolto per tenui sovrapposizioni, luminose velature, piccole epifanie di luce che si diffondono nelle diverse direzioni dando corpo a minime tracce, piccoli gesti di superficie. Nella fase più recente, che inizia nel 2000, convivono nell’ispirazione dell’artista molteplici tematiche, nelle quali, pur in un contesto intessuto di fraseggi astratti e di clima informale, la figura sembra emergere sulla soglia di una leggibilità appena accennata. Queste si evidenziano soprattutto nei temi d’arte sacra, dove l’artista esprime il dato di una calda interiorizzazione del pensiero con il riferimento a immagini prelevate dalle Scritture; in tale contesto Cristo e la Crocifissione ricorrono spesso anche come paradigmi di una sofferenza umana che tocca gli individui. L’impianto compositivo vive su un fondo in cui lo spazio è intessuto di segni e gesti che lo imbrigliano in una tessitura fitta di motivi segnici.
Dopo la grande rassegna personale alla Chiesa di Sant’Antonio Abate di Udine dell’ottobre 2008, la ricerca di questo artista non ha subito rallentamenti, anzi è ancora generosa di risultati che sarebbe bene codificare e verificare in un prossimo evento espositivo; lo merita la sua generosità di uomo e di artista, che ha prodotto varie centinaia di opere sapendo trasmettere urgenze di incontro e solidarietà, di amicizia e di affetto con tutti quegli elementi (luoghi, persone e cose) nei quali ha individuato sempre il ritmo metamorfico dell’esistente e, quindi, il respiro della natura.
Enzo Santese