Home Arte La scultura dalla consistenza fisica al riflesso simbolico

La scultura dalla consistenza fisica al riflesso simbolico

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Vojc Sodnikar Ponis 3
LORELLA FERMO, I “venti” di Vojc, cm 21 x 29, tecnica mista su carta, 2020

Una rassegna retrospettiva di Vojc Sodnikar Ponis presso la Galleria “Herman Pečarič” di Pirano, in Slovenia, è un’occasione utile a ripartire dal punto in cui l’artista ci ha lasciato, per indagare sui riverberi che la sua poetica sa trasmettere, riaffermando una presenza che, nella sobrietà e riservatezza del personaggio, trapelava a ogni circostanza in cui fos­se richiesto uno sguardo sull’arte contemporanea, la sua funzione e le possibili prospettive: uomo di una cultura, che alimentava la sua profondità nel con­fronto continuo con la realtà, e di una sensibilità vi­bratile per ogni manifestazione della natura, fervido sostenitore di un nuovo umanesimo, unico antidoto contro la barbarie della violenza, del profitto spinto alle estreme conseguenze e cultore di una bellezza non fine a se stessa, ma intesa quale complemento necessitante per un’armonica coesistenza con l’am­biente. Scultore per vocazione istintiva, in anni di febbrile ricerca ha maturato una consapevolezza che gli ha consentito di affidare la riflessione plasti­ca all’immediatezza dello scolpire e dell’individuare l’immagine all’interno del blocco di pietra; la sua poetica è segnata da una stretta fedeltà ai principi creativi ispirati a una purezza ascetica. L’artista studiava preventivamente la materia nel­la quale leggeva il presagio dell’opera da realizza­re; così organizzava un piano ideativo di profondo nesso tra ritmo e spazio, tra allusione metaforica e animazione formale, tra semplici presenze verticali e segni peculiari che le distinguono. Il bell’equilibrio delle sue opere si attua tra le tensioni minimaliste e lo slancio costruttivo dei volumi, inseriti in precise logiche di figure composte. Pur avendo un rapporto strettissimo con la materia, molte delle sue creazio­ni sono nate da una spinta interiore di marcata im­pronta spirituale. Lo testimonia ampiamente il ri­cordo di un suggestivo evento espositivo di qualche anno fa presso il suo atelier: sette elementi lapidei si ergevano con sviluppo verticale a sottolineare la “magia” di uno spazio dove un cerchio virtuale a pavimento era “tracciato” per allusione dalle facce interne arcuate delle sculture, poste lungo un’intui­bile circonferenza. Così l’artista, proteso a smuovere la geometria dalla sua concezione di fissità, produ­ceva nello spazio dell’evento una musicalità e un bi­lanciamento tra il classico e l’archetipo. Il suo occhio era sempre teso a scoprire l’equilibrio dell’assoluto, da una parte, penetrando nell’infinita­mente piccolo e, dall’altra, cogliendo la complessità dell’infinitamente dilatato, in un’azione creativa at­tenta all’armonia e alla bellezza scaturita dalla sem­plicità. L’opera di Vojc Sodnikar Ponis è esemplare nella capacità di racchiudere nelle piccole e medie dimensioni la risonanza simbolica di forme che esprimono una gamma di opzioni interpretative molteplici. Tracce, solchi, incisioni intermittenti o lineari danno il polso di una poetica che mira all’essenziale e, anzi, in tale contesto l’artista trova, quasi per ossimo­ro, il pregio di una com­plessità che è sostanzial­mente il tratto fondante dell’universo rappreso poi in ognuno dei suoi manufatti. La ricerca di forme primarie (la conchiglia, la spirale, la stele, gli ele­menti della natura) si realizza attraverso la scelta di un repertorio quanto mai vario eppure riconducibile a una matrice che è la sensibilità stessa dell’artista, proteso a far parlare la materia con il linguaggio di un tempo remoto immesso nella contemporaneità. Le opere scandiscono lo spazio attraverso successio­ni di superfici grezze e levigate, aggettano e si ritira­no esibendo quasi l’effetto di una risacca. Attraver­so l’ondularità dei suoi volumi la materia esprime a pieno la musicalità di un movimento, quello del tempo che fluttua nelle fasi evolutive nella sto­ria. La tensione dialettica degli opposti risiede nell’alternanza dei pieni e dei vuoti, nelle aperture e nelle verticalità piene, negli avvallamenti e nei rilievi. L’artista in tal modo giunge a esiti formali di sicura efficacia, fatta anche di fine misura compositiva, dove la seduzione classica – pre­sente in questo autore molto attento ai suggerimenti della storia – si coniuga con una miriade di soluzioni plastiche, capaci di dare all’opera i lineamenti di ri­conoscibilità dentro un filone di coerenza che riman­da alla fonte, cioè a Vojc Sodnikar Ponis. Lo spazio è concepito come un complemento necessi­tante dell’opera, che dentro quel contenitore ha modo di esaltare i dettagli “anatomici” e di innescare con la luce dell’ambiente un gioco di assorbenze e riflessi posti lì a costituire un ricco alfabeto di parole scritte nella solidità della materia. E talora dà l’idea di un flusso magmatico che si è rappreso e solidificato per un misterioso fenomeno di natura e fermato come alle soglie del dicibile, in quel punto di confine che separa fil mondo fisico e lo spirituale. Ogni parte dell’opera è una pagina scritta di emozio­ni affidate a ritmi e segni anche minimi, che accolgo­no in sé arguzie solo in parte narrative, impigliate nel reticolo di serialità incise che rendono formicolante il piano. È un complesso di alfabeti riconducibili alla struttura significante di codici poetici, che rimandano a un paesaggio mentale, emblema primario della vita dove asprezze e motivi di gioia si susseguono in un incalzare di eventi che, nel loro complesso, danno di­gnità e bellezza all’esistenza. Le caratteristiche della materia, mai perfettamente corrispondenti da brano a brano, offrono una resistenza variabile di fronte all’azione dello scultore che agiva per sottrazione; è per questo che la conoscenza della materia era ag­giornata con una continua sperimentazione e appro­fondimento delle sue qualità e la ricerca aveva anche la finalità di monitorare le potenzialità da tradurre poi in un progetto creativo.

La tecnica di attacco alla pietra procedeva su più direttrici dentro una poetica che alla materia richiedeva non solo forme e volumi ma anche segni che punteggiano le superfici, dove il gioco lucido/opaco crea una dialettica fra il concetto di riflesso e di assorbenza. Le sinuose rotondità dei corpi plastici inanellano una serie di movimenti di li­nee che dinamizzano le parvenze della scultura, talo­ra dall’aspetto di un misterioso fossile che, in questo frangente, subiva un arrangiamento e una modifica­zione non dal tempo e dalle condizioni atmosferiche ma dallo scalpello di Vojc. In alcuni casi paiono con­chiglie piovute dal cosmo a ritrarre nella forza del ge­sto e nella rilevanza della modellatura una presenza, adatta a testimoniare l’idea di un tempo remoto che apre orizzonti di conoscenza ai contemporanei. Le tracce inscritte nelle superfici solitamente non fan­no parte di un disegno narrativo, ma sono l’indizio di un’emersione intermittente di venature, attraverso cui l’artista fa “respirare” la pietra che, fuori dalla sua nuda evidenza fisica, reclama uno sguardo che la cataloghi come evento plastico; qui l’assonanza con un immaginario ancestrale si fonde con la logica del­la geometria, asservita a un progetto che trasforma la realtà lapidea in pulsante “presenza”, innestata in un contesto che può essere anche in combinazione di “dialogo” con altre sculture.

La GalleriaHerman Pečarič” contiene un reperto­rio abbastanza vasto, costituito anche da opere note solo ai visitatori del laboratorio di Vojc a Puče (Puz­zole), una sorta di eremo che consentiva all’artista di pensare e realizzare le “creature” con cui idealmente colloquiava. Questo evento espositivo serve anche a tracciare la poetica anche ai visitatori che hanno mi­nor consuetudine con i fatti della scultura; una visi­ta lungo i molteplici percorsi proposti dalla rassegna apre un mondo ricco di sollecitazioni non solo esteti­che, ma generoso di rilievi che inducono a sollevare lo sguardo oltre l’orizzonte della fisicità. E questo avvie­ne anche grazie a corpi plastici che partono da forme e concetti usuali del quotidiano (cuscini, ciambelle, salamandra, vento) per lasciar trapelare numerose sfumature simboliche, interpretabili dalla sensibilità dell’osservatore con ricchezza di esiti potenziali.

Enzo Santese