Home Arte Anche la banana può allucinare (Cattelan docet)

Anche la banana può allucinare (Cattelan docet)

Cattelan docet
MAURIZIO CATTELAN, Comedian, installazione (banana attaccata al muro con il nastro adesivo), 2019

Probabilmente Ennio Bianco è oggi il commentatore e critico d’arte più ac­corto in circolazione. Un suo recente articolo su Arte.Go.it del 14/12/2019, dal titolo Dalla “Bananadine” alla “Comedian”: la “vera” origine del­la banana appesa di Maurizio Cat­telan, ricostruisce magistralmente il background socio-artistico che fa da sfondo al “caso” dell’opera di Cattelan “appe­sa” presso lo stand della galleria Perrotin a Art Basel Miami il dicembre scorso. Bianco fa iniziare la sua ricostruzione feno­menologica della storia dalla “bufala”, messa in circolazione negli anni ’60 in piena cultura hippy, riguardante le proprietà psicotiche del­la buccia di banana essiccata: la Bananadine. La credenza nelle proprietà allucinogene della mitica sostanza venne alimentata attraver­so il supporto dei prodotti della controcultura underground dell’epoca (dalla canzone Mel­low Yellow di Donovan all’articolo di William Powell su The Anarchist Cookbook nel 1970, che descriveva come produrla, fino al testo di A.D. Krikorian, pubblicato nella rivista New York Botanical Garden Press, che ne riportava le “proprietà psichedeliche”), ma il contributo maggiore al successo mediatico-iconografico della banana, sottolinea Bianco, fu dato dalla copertina, ad opera di Andy Warhol, del di­sco The Velvet Underground & Nico, album di debutto della band capitanata da Lou Reed, pubblicato nel marzo del 1967.

Come chiosa l’autore: La copertina del disco è celebre per il disegno opera di Warhol: una banana gialla “sbucciabile” con l’indicazione “Peel slowly and see” stampata vicino. Chi ri­muoveva la buccia di banana adesiva, vi tro­vava sotto un’allusiva banana di colore rosa. La firma del maestro della Pop Art, in qualche misura, codifica “culturalmente” (seppur nei termini ambigui della simbolica sessuale) l’im­magine del frutto, ricco di potassio, nell’imma­ginario popolare. Sulla base di queste premesse, Bianco opera un salto temporale e spaziale dall’America all’Eu­ropa riferendosi alla performance del pittore Thomas Baumgärtel. Attivo a Colonia, durante gli anni ’80, e meglio noto con l’appellativo di Bananasprayer, l’artista ‘etichettava’ le vetri­ne o i muri delle gallerie d’arte della metropo­li tedesca, allora un polo artistico importante, con l’effigie dipinta di una banana (molto si­mile a quella di Warhol). Le sue “tracce”, dap­prima osteggiate e rimosse, vennero nel corso del tempo ad acquistare un significato di ap­prezzamento, divenendo il simbolo per indica­re luoghi d’arte straordinari. Oggi oltre 4000 Gallerie, Musei e Centri espositivi delle metro­poli di tutto il mondo hanno adottato icona-banana creata dal “Bananasprayer”. A questo punto, Bianco introduce nel suo per­corso diegetico Maurizio Cattelan, facendoci sapere che nel 2017 l’artista, tornato in auge l’anno prima sulla scena statunitense per aver installato la sua scultura, realizzata in oro 18 carati, dal titolo “America” nella toilette del Solomon R. Guggenheim Museum, invitato (con altri 49 artisti) dalla rivista New York a progettare una copertina per il cinquantenario del magazine, decide di usare una banana ap­plicata con del nastro adesivo rosso. Avendo Cattelan scartato l’opzione iconica della mela per connotare la sua idea della me­tropoli, Bianco ipotizza che abbia voluto citare Warhol (quale il più grande protagonista della scena artistica newyorkese) o Baumgärtel (per sottolineare lo specifico di “luogo straordinario dell’arte” della città), ma rimane fuor di dub­bio per lui che l’artista abbia citato se stesso in relazione all’uso del nastro adesivo. Infatti, con questo di colore grigio, Cattelan aveva “appe­so” al muro nel 1999 il gallerista Massimo De Carlo nel corso della performance A Perfect Day. La matrice ideativa della banana “appesa” da Cattelan e titolata Comedian nello stand di Art Basel Miami sarebbe quindi per Bianco l’auto­citazione dell’artista, che in questo modo in­tenderebbe porsi anche all’interno di una tra­dizione figurativa dell’avanguardia e in senso più lato all’interno della storia dell’arte. Bianco rimane anche equidistante dal sensazio­nalismo (critico e acritico) del codazzo mediati­co scatenatosi intorno all’opera (ulteriormente accentuato dalla sua “distruzione” alimentare da parte del sedicente artista David Datuna), e correttamente ne definisce le coordinate “onto­logiche” in merito al prezzo (120.000 $) stabi­lito dal gallerista Perrotin. Scrive infatti: Io penso che la vera genialità in tutta questa operazione sia stata del galle­rista nel…costruire il brand dell’artista, come si farebbe per un qualsiasi altro prodotto di consumo. L’attribuzione del valore alla cosa-opera, o all’evento-opera, avviene attraverso una costruzione del consenso sostenuta finan­ziariamente. Un’arte che crea shock (o che sia spettacolarizzata) risponde appieno a que­ste finalità. Lo shock è lo strumento operati­vo principe sia della comunicazione che del­la narrazione finalizzata alla valorizzazione dell’opera. Questa disamina mi trova d’accordo, ma va integrata rispetto allo specifico formale dell’o­pera e, in questo senso, allargata oltre il livello stilistico “ripetitivo” e “includente” dell’auto­citazione. All’uopo, diventa significativo riferirsi alla di­fesa della produzione di Cattelan fatta dal cri­tico del New York Times Jason Farago. Egli insiste sulla cifra stilistica della sospensio­ne della banana attuata da Cattelan: l’arte del sospendere è l’artificio espressivo che caratte­rizza la poetica neo-dadaista dell’artista, al cui interno appropriazione, citazione e ready made sono implementate in quanto prassi che rende l’ovvio ridicolo, sgonfia e sconfigge le pretese dell’arte precedente. Appartengono a questo fi­lone opere come Novecento (1997), un cavallo tassidermizzato appeso al soffitto di una sala del castello di Rivoli; il già ricordato Massimo De Carlo, appeso al muro come un irriveren­te crocifisso durante A Perfect Day (1999); La Rivoluzione Siamo Noi (2000), un sembiante in miniatura di Cattelan che penzola da un appendiabiti come un cosciotto di prosciutto, e la retrospettiva di tutta la sua produzione al Guggenheim nel 2011, allestita appendendo le opere al soffitto del museo, come panni stesi ad asciugare.

Per Farago, la specificità della “messa in vi­sione” dell’opera è quanto fa di Cattelan un critico ironico del mondo dell’arte dall’interno, molto più efficace culturalmente della scontata e “politicamente corretta” rimostranza che un artista “iconico” come Bansky rivolge contro la “mercificazione” di quel mondo dall’esterno (o almeno presunto tale). Sostanzialmente, per il critico newyorchese, Cattelan, mediante la banana appesa al muro con lo scotch, ci mostra cosa sia “veramente” l’opera d’arte oggi e quanto la sua “ontologia” possa prescindere da un preteso contenuto (al contrario degli stucchevoli “murales” di Ban­sky) poiché ne rende palese la forma-merce fi­gurativa in quanto valore (d’uso) di ‘messa in scena’ (come insegna Gernot Böhme, il teorico dell’Ästhetischer Kapitalismus).

Il tragitto che l’artista ha fatto compiere al frut­to (acquistato al mercato per 30 cents, dove la sua esposizione lo valorizzava agli occhi dei compratori in maggior parte per il bisogno e in misura minima per il puro desiderio estetico), ricollocandolo nello stand di una galleria im­portante ad Art Basel Miami, in cui è diventato idea astratta di ofelimità solo estetica (a parte Datuna, che forse voleva “citare” Ti si man­giate la banana, il capolavoro trash di Leone di Lernia), ha consentito di portare il suo valore di scambio fino a 120.000$.

Giancarlo Pagliasso

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